Non è più solo una tendenza di mercato, ma un dato di fatto: l’Italia è travolta in pieno dalla crisi abitativa. I prezzi degli affitti crescono inesorabilmente, le periferie si svuotano di servizi e i centri urbani diventano sempre più inaccessibili per giovani, anziani e famiglie a medio-basso reddito.
In questo contesto, l’housing sociale si propone non solo come una soluzione abitativa, ma come una leva strategica per la rigenerazione urbana e l’inclusione sociale. Insomma, un modello che, al contrario di quanto sostenuto da alcune forze della destra, non rappresenta un peso per le casse pubbliche, ma, al contrario, un intervento lungimirante.
Ma di che cosa si tratta? In poche parole, è una forma di edilizia residenziale pensata per rispondere ai bisogni abitativi di quella “fascia grigia” della popolazione che, pur non potendo accedere al mercato libero, non rientra nei criteri per l’edilizia popolare. Non solo, perché è un modello pensato con un approccio integrato: non solo case, ma anche spazi comuni, servizi alla persona, aree verdi e percorsi partecipativi. Insomma, non solo alloggi, ma anche comunità a 360 gradi.
Rigenerazione urbana: da contenitore a contenuto
Dunque, come anticipato, oltre a rispondere a un bisogno abitativo i progetti di social housing sono motore di rigenerazione urbana. Questo perché spesso intervengono in aree dismesse, in ex aree industriali, in zone periferiche o degradate o in quartieri svuotati dalla speculazione immobiliare. In altri termini, riqualificano il costruito, limitano il consumo del suolo e restituiscono dignità a interi pezzi di città.
Un esempio? Il Fondo Ca’ Granda a Milano è emblematico: oltre 1.400 alloggi in edilizia sociale e convenzionata, progetti secondo criteri di sostenibilità ambientale, con attenzione all’inclusione e alla socialità. Spazi comuni, orti urbani, servizi educativi e culturali.
Ma sono molte le iniziative di questo tipo. Pensiamo per esempio allo Sharing Torino, nel capoluogo piemontese, che propone una formula innovativa di coabitazione temporanea con servizi condivisi, pensata per studenti, giovani lavoratori e persone in transizione abitativa. O ancora Bologna, con il suo complesso Porto 15 che rappresenta una delle prime esperienze italiane di co-housing pubblico. Insomma, di esempi virtuosi ne abbiamo.
Nonostante ciò, le critiche non mancano. E una delle più gettonate riguarda il rischio di ghettizzazione. Ma la realtà dimostra il contrario: la presenza di un mix sociale, unita a una progettazione di qualità, contribuisce a rendere i quartieri più vivibili ed evitare la polarizzazione tra ricchi e poveri. E, in molti casi, questo modello abitativo ha permesso di mantenere nei quartieri famiglie che altrimenti sarebbero state espulse dal mercato.
Una sfida comunitaria, politica e sociale
Le risorse investite, spesso tramite fondi pubblici e privati, generano valore sociale ed economico e prevengono i costi ben maggiori legati all’esclusione, al degrado e alla marginalità.
Numeri alla mano, secondo i dati più recenti, nel nostro Paese si stimano circa 900 mila alloggi di edilizia residenziale pubblica, ma il fabbisogno effettivo è ben più alto, soprattutto nei grandi centri urbani. E, in questo senso, il Programma innovativo nazionale per la qualità dell’abitare – il cosiddetto PINQuA –, finanziato dal PNRR con 2,8 miliardi di euro, rappresenta uno dei tentativi più ambiziosi di riqualificazione del patrimonio abitativo esistente.
Anche il coinvolgimento della Banca Europa degli Investimenti, con finanziamenti mirati a progetti di housing sociale a Milano, Firenze e Torino, conferma che l’Europa crede in questo modello.
Un altro aspetto distintivo è il coinvolgimento delle comunità nella progettazione e nella gestione degli spazi. Cooperative, associazioni di abitanti, enti del terzo settore: sono gli attori che animano questi progetti e garantiscono radicamento, sostenibilità e innovazione.