08.06.2024
Potrebbe toccare il 50%, colpendo maggiormente chi ha più voti al Sud
Roma, 8 giu. (askanews) – Lo spettro dell’astensionismo si aggira un po’ per tutta Europa, impegnata nella decima tornata elettorale della sua storia. Ma incombe in particolar modo sull’Italia, che dall’euro-entusiasmo delle prime elezioni per il Parlamento europeo potrebbe stavolta veder scendere la partecipazione nazionale intorno al 50% e trovarsi sotto alla media Ue.
Nel corso dei decenni l’affluenza media europea per il rinnovo del parlamento dell’Unione ha subìto un calo quasi costante, passando dal 62% del primo voto nel 1979 al poco più del 50% nell’ultima tornata del 2019. Andando a guardare la serie storica (ai 6 paesi fondatori della Ue nel 1958, e agli altri 3 entrati nel 1973, si sono uniti nel frattempo altri 19 paesi), si nota che dopo il 61,9% del 1979, l’affluenza media europea nel 1984 è calata infatti al 58,9%, nel 1989 è scesa al 58,4% e nel 1994 al 56,6%. Nel 1999 poi, è calata drasticamente al 49,5%, nel 2004 al 45,4%, nel 2009 al 42,9%, e nel 2014, dato più basso di sempre, al 42,6%. Poi c’è stato un buon rimbalzo nel 2019, quando è risalita al 50,6%.
Come sarà l’affluenza a livello continentale quest’anno, quando domenica sera si chiuderanno le urne? Difficile fare previsioni, sia perché l’uscita nel 2020 del Regno Unito (che alle Europee ha sempre avuto percentuali altissime di astensione), potrebbe condizionare al rialzo il dato, sia perché molto dipende dalle dinamiche interne a ciascun Paese. Secondo una ricerca della Fondazione Bertelsmann, l’affluenza media continuerà la ripresa registrata nel 2019, soprattutto nei Paesi del Nord. Quasi certamente invece, l’Italia sarà in controtendenza. Da noi il calo della partecipazione nelle elezioni Ue ha mostrato un andamento altrettanto calante, ma più marcato che nel resto d’Europa, seppure “viziato” da percentuali iniziali di partecipazione più alte. Nel primo voto del 1979 l’affluenza italiana è stata dell’85,6%; nel 1984 è calata all’82,4% e nel 1989 all’81%. Nel 1994 si è registrato un brusco calo, al 73,6%, e nel 1999 al 69,7%. Nel 2004 l’affluenza è risalita al 71,7% ma già nel 2009 è ripresa a calare attestandosi al 66,4%. Nel 2014 poi, è stata del 57,2% e nel 2019 del 54,5%, collocandosi ancora poco sopra la media europea.
Domenica dunque, a urne chiuse, l’Italia potrebbe finire per la prima volta sotto la media Ue e trovarsi drammaticamente vicina a una soglia di astensione del 50%. Va detto che in Italia la tendenza all’astensionismo mostra dati più allarmanti alle europee rispetto che alle elezioni politiche (il 36,1% di astenuti nel 2022), segno che la Ue viene percepita come entità più distante. A ben guardare però, le differenze tra i due appuntamenti elettorali scompaiono se si prendono in esame i parametri socioeconomici dei territori più colpiti dall’astensione. Secondo una ricerca Edjnet-Sole 24 ore, sia alle politiche che alle europee i Comuni italiani che hanno registrato maggiore astensionismo hanno in media un indice di vecchiaia più elevato rispetto alla media nazionale e un rapporto di sostanziale parità tra cittadini in età non attiva e quelli in età attiva. Scende anche l’incidenza di laureati (fino a sotto il 30%, contro la media del 36%) e raddoppia l’analfabetismo (da 0,6% a 1,2%). Ma è soprattutto nel confronto sul piano economico che si svelano le radici dell’astensionismo: a fronte di una disoccupazione media nazionale dell’8,8%, nei Comuni più “astensionisti” il tasso supera il 13% e il reddito dichiarato risulta più basso del 23% rispetto alla media nazionale.
Si tratta di evidenze che combaciano con una recente analisi del Censis, secondo la quale la ridotta partecipazione elettorale e la scarsa fiducia nelle istituzioni europee sono legate, a livello continentale, al lungo ciclo del “declassamento sociale sperimentato negli ultimi quindici anni da un cittadino europeo su tre: oltre 150 milioni di cittadini – sottolinea il Rapporto sullo stato dell’Unione – che hanno visto ridursi i propri livelli reddituali, che vivono in province periferiche rispetto agli assi produttivi dell’Europa e che a causa di questo inesorabile scivolamento manifestano di conseguenza il profondo malessere dei perdenti, che li porta ad allontanarsi anche dal cuore politico europeo”. Un identikit che, nel caso italiano, sembra coincidere quasi perfettamente con i parametri socioeconomici del Sud.
Lo conferma indirettamente, in una recente intervista a Repubblica, il politologo della Luiss Roberto D’Alimonte, secondo il quale “nel 2019 la differenza” in termini di votanti “tra le regioni del Centro Nord e quelle del Centro Sud fu di 17 punti e stavolta la forbice potrebbe allargarsi” ulteriormente. In questo quadro è inevitabile che l’astensionismo faccia più paura a quei partiti che sono forti al Sud, in primis il M5s, visto che, prosegue D’Alimonte, “in proporzione al totale i voti meridionali rappresentano per il Movimento il 65%; il 49 per Forza Italia, il 35 per Fratelli d’Italia, il 34 per il Pd”. Se tra sabato e domenica andrà a votare solo un elettore italiano su due si porrà un problema politico per tutti partiti, perché, come ha scritto il il Censis, “saremo di fronte a qualcosa che può insidiare gli stessi meccanismi di funzionamento delle democrazie liberali” e poi perché tutti i partiti si troveranno davanti a una metà del paese – ha notato Lina Palmerini sul Sole 24 Ore – che non si sente rappresentata né dalle forze di governo né da quelli di opposizione. Ma forse, paradossalmente, potrebbe aprirsi un problema in più per quelle forze politiche più populiste, che hanno cavalcato il malcontento delle persone finite ai margini – che in Italia si trovano soprattutto al Sud – e che non saranno riuscite a convincerle a recarsi ai seggi.