Assieme alla temperatura del pianeta si alza quella dei conflitti globali. Trump ha bullizzato gli europei sui dazi, ma non è riuscito a fermare Netanyahu sui bombardieri. Israele ha colpito decine di obiettivi in Iran – impianti nucleari (Natanz in testa), fabbriche di missili e residenze di alti comandanti dei Pasdaran – con raid aerei, droni e azioni di sabotaggio.
Teheran conferma la morte di almeno 20 comandanti – incluso il capo dell’Aerospazio dei Pasdaran, Amir Ali Hajizadeh – e di 6 scienziati nucleari. In risposta, l’Iran ha lanciato dozzine di droni e missili: l’Idf ha dichiarato che ci sono state diverse intercettazioni, ha chiuso le scuole, vietato gli eventi di massa e invitato i cittadini a prepararsi a “lunghe ore nei rifugi”.
L’escalation delle parole
Fin qui la cronaca. Che somiglia, drammaticamente, ad altre pagine della storia tormentata della regione. Ma ci sono due dati che emergono segnalando novità incandescenti. La prima novità è l’escalation delle parole utilizzate da entrambe le parti. Israele ha dichiarato: “Siamo in guerra, questo è solo l’inizio”. L’Iran conferma (“E’ una dichiarazione di guerra”) e promette una rappresaglia “che durerà anni”.
Il presidente degli Stati Uniti in un primo momento aveva chiesto a Netanyahu di evitare un attacco diretto. Ora definisce l’attacco “eccellente” e avverte che “ce ne saranno molti altri”, segnalando pieno appoggio a Israele. Aggiunge un’apertura diplomatica parlando di “seconda chance”, ma subito minaccia: “L’Iran faccia accordo prima che non rimanga nulla”.
Di fatto, Trump sta usando per la guerra la stessa tattica utilizzata per gli accordi commerciali: afferma oggi per negare domani, promette e ritratta, minaccia e ritratta per minacciare ancora. A giudicare dai dati sull’economia a stelle e strisce non pare che questo sistema abbia dato finora buoni risultati sul piano dei bilanci. Ha fatto scendere le previsioni del Pil, ha innervosito i mercati, ha rafforzato – per contrapposizione – l’immagine di Pechino che si sta proponendo come elemento indispensabile alla stabilità mondiale.
I rischi per Israele
La tattica di Trump funzionerà meglio per la guerra? Al momento Israele ha chiuso le sue ambasciate in tutto il mondo. Vede crescere l’onda di antisemitismo. Il ministero degli Esteri di Tel Aviv consiglia a tutti gli israeliani all’estero di aggiornarlo sulla loro ubicazione e situazione. La politica della guerra continua su tutti i fronti di Netanyahu ha spaccato in due il Paese, creato una frattura profonda nelle forze armate, uno scontro con la magistratura le cui conseguenze sono difficile da valutare, fatto precipitare la reputazione di Israele nel mondo.
E poi c’è la seconda novità: il rapporto Iaea (International Atomic Energy Agency) che ha innescato l’attacco israeliano. L’Agenzia ha formalmente dichiarato l’Iran inadempiente — la prima volta negli ultimi vent’anni — per una serie di violazione del Trattato di non proliferazione fissile. In sostanza l’accusa è di avere più materiale nucleare di quello dichiarato e di aver spinto i processi di arricchimento dell’uranio oltre la soglia concordata.
Ma è difficile circoscrivere questo tema nel quadrante iraniano. Certo il regime di Teheran ha fatto di tutto per mostrare il suo disprezzo delle regole democratiche e ha messo da sempre in atto una feroce repressione del dissenso. Però il tema di fondo è un altro: il confine tra la ricerca nucleare mirata agli aspetti bellici e quella mirata agli aspetti di produzione energetica è estremamente sottile. Tanto che l’elenco dei Paesi che hanno la maggiore capacità di produzione elettrica nucleare coincide con quello dei Paesi che hanno armi nucleari. Storicamente ha funzionato in un verso: prima si sono prodotti gli armamenti nucleari, poi le centrali elettriche per ammortizzare meglio l’investimento. Oggi c’è il rischio concreto di un processo inverso.
Centrali nucleari: l’elenco dei buoni e dei cattivi
Ma chi stabilisce l’elenco dei Paesi a cui è consentito creare centrali nucleari e l’elenco di quelli a cui è vietato? Nei giorni scorsi la Banca Mondiale, ponendosi sulla stessa linea suggerita ad aprile dal segretario Usa al Tesoro Scott Bessent, ha annullato il divieto che si era data di finanziare progetti per centrali nucleari. Secondo il New York Times, Trump “sta cercando di espandere la flotta di reattori americani e quadruplicare il contributo del nucleare alle reti elettriche del Paese. I funzionari hanno sottolineato il sostegno a una nuova generazione di reattori più piccoli che promettono un’implementazione più rapida, ma che devono ancora essere dimostrati”.
Ma se la proliferazione del nucleare civile venisse effettivamente sdoganata, molti Paesi – dall’Africa all’Asia – si potrebbero mettere in fila (alcuni ne hanno già dichiarato l’intenzione) per ottenere centrali che da una parte producono elettricità e dall’altra materiali radioattivi che si possono – sia pure attraverso procedure tecnicamente complesse – trasformare in materiali bellici.
Lo scenario mediorientale di questi giorni è da brivido. Ma con queste premesse il rischio potrebbe allargarsi ad altri contesti.