30.11.2024
Cessate il fuoco nel Libano, ribellioni in Siria, imposizioni all’Ucraina; paradossalmente, non avendo più nulla da perdere, l’anziano Presidente intensifica la sua operatività, ottenendo risultati mai pensati prima. Un dispetto al suo successore, tanto atteso da Putin e Netanyahu, o una mossa affermativa per i Democratici? Osservazioni analitiche.
Tregua, per quanto fragile, in Libano. Rimozione del divieto di usare armi USA per colpire in territorio russo. Nelle ultime settimane, Joe Biden ha ottenuto risultati o preso decisioni impensabili pochi mesi prima: una situazione paradossale per un’amministrazione sconfitta, alla quale restano meno di otto settimane prima di passare il testimone a Donald Trump. Un Biden decisionista ed energico, diverso dall’anziano la cui fragilità aveva indotto il suo stesso partito a chiedergli di farsi da parte.
Sul versante interno, la spiegazione si può cercare proprio nella mancanza di vincoli. Come recita un proverbio napoletano, sulla Terra i potenti sono tre: «’o Papa, ’o Re e chi nun tiene niente ’a perdere». In questo senso, dopo quattro anni vissuti facendo lo slalom tra l’insurrezione del 6 gennaio 2021, l’uscita dal Covid, l’invasione dell’Ucraina, la lotta all’inflazione, l’occupazione delle università per le proteste anti-israeliane, Biden sente ora di non dover più governare con il bilancino in mano. Anzi, l’attuale attivismo potrebbe creare difficoltà al suo non amato successore. Una sorta di vendetta postuma, insomma. Per quanti desiderano un cessate il fuoco purchessia, se necessario persino sganciato da una soluzione equa, la domanda è però un’altra: il risultato poteva essere raggiunto prima? In effetti, secondo diversi analisti Putin e Netanyahu avrebbero scommesso sulla vittoria di Trump per poter trattare con una amministrazione a loro politicamente più affine. Su un fronte, la scommessa di costringere l’Ucraina ad accettare mutilazioni territoriali e minor indipendenza; sull’altro, la promessa di una mano libera nelle operazioni contro le milizie filo-iraniane. In questa chiave di lettura, concedere qualcosa a Biden adesso, quando non può servire alla campagna presidenziale è solo la conferma che la strategia del tirare per le lunghe si è dimostrata vincente.
Meno speculativa e più urgente è la questione degli aspetti che sfuggono al controllo statunitense. L’offensiva verso Aleppo lanciata da Hayat Tahrir al-Sham, un gruppo fondamentalista che oggi sembra essere legato alla Turchia, ma che in passato rispondeva ad Al Qaeda, ne è un esempio chiaro. Sguarnito da Hezbollah, impegnato contro Israele al sud, l’estremo settentrionale della Siria è tornato “contendibile”, riportando nella regione l’instabilità che l’armistizio voleva arginare. Sul versante ucraino, diversi paesi europei stanno organizzandosi per contenere la tracimazione russa. Da un lato c’è il patto stretto dalle nazioni settentrionali ed orientali, le più esposte alle mire espansioniste russe; dall’altro, le aperture neanche troppo velate di Francia e Regno Unito all’invio di rinforzi – umani, non tecnologici – in territorio ucraino.
Se è presto per dire come i due filoni si svilupperanno, sembra certo che ben difficilmente gli Stati Uniti potranno risolvere unilateralmente i due problemi. Abbandonare al suo destino il presidente Assad porterebbe necessariamente ad un intervento di Putin, obbligato a difendere l’unico alleato in quello scacchiere. Allo stesso modo, lasciare che gli europei difendano da sé il proprio confine orientale diminuirebbe il peso USA nelle trattative, rendendo difficile a Trump imporre “in 24 ore”, come disse in campagna elettorale, una pace leonina.
Dietro il ritrovato decisionismo di Biden, insomma, si scorgono scenari difficili da leggere con l’ottica della prudenza che da molti anni caratterizzava l’azione americana. Se funzionerà, e se reggerà al cambio di amministrazione, resta tutto da vedere.