Le fonti rinnovabili sono lo strumento indispensabile per evitare il tracollo climatico che renderebbe inabitabili ampie aree del mondo, Italia compresa: un paesaggio privo di pannelli fotovoltaici ma sommerso dal mare o bruciato dal sole non sembra un futuro auspicabile. Ma mentre la costruzione di capannoni industriali, villette a schiera e strade continua indisturbata, lo zelo estetizzante prende di mira solo le fonti rinnovabili, additate come l’immagine per antonomasia dello scempio paesaggistico. Campagne di comunicazione ben orchestrate e foraggiate si concentrano su meno dell’1% per mille del territorio italiano, quello occupato dalle fonti rinnovabili, e ignorano l’oltre 7% di territorio italiano, quello impermeabilizzato da asfalto e cemento.
Corollario di questa logica è la scelta di criteri capestro per definire le cosiddette “aree idonee” allo sviluppo delle rinnovabili. In base a questi criteri la Sardegna, che ha il più alto tasso pro capite di emissioni di CO2, ha definito non idoneo il 99% del suo territorio. Ora sembra che il governo cominci a pentirsi. Anche perché continuare a frenare le rinnovabili non è compatibile con gli obiettivi europei di difesa climatica né con la necessità di abbassare le bollette.
E così finalmente, dopo la bocciatura del Tar di maggio, è in dirittura di arrivo la versione aggiornata del decreto sulle “aree idonee” alle rinnovabili. Il testo, messo a punto dai ministeri di Ambiente, Agricoltura e Cultura e anticipato da Repubblica, contiene queste novità: ridimensionato il potere delle Regioni, che avranno 180 giorni per definire le proprie mappe, pena il commissariamento; le distanze dai beni vincolati vengono riportate a 3 km per l’eolico, 500 metri per il solare: dietrofront sulla possibilità di estenderle fino a 7 km. La lista delle superfici disponibili si allarga: non solo terreni industriali e aree logistiche, ma anche miniere dismesse, discariche, cave abbandonate, grandi parcheggi, spazi lungo le autostrade e perfino il demanio militare. Scoprire che le discariche e le cave abbandonate non hanno le caratteristiche di pregio delle colline del Chianti non è una mossa estremamente audace, ma forse è meglio che niente.
La sfida degli 80 gigawatt
Vedremo se questa volta troveranno un argine i diktat anti rinnovabili di Regioni che hanno lasciato massacrare il proprio territorio da impianti fossili già arrivati al capolinea. Il decreto serve a difendere una delle riforme-chiave del Pnrr: la semplificazione autorizzativa, condizione posta da Bruxelles per erogare i fondi. E per provare a centrare i target fissati dal Green Deal e dal Pniec: 80 GW di nuova potenza rinnovabile entro il 2030 rispetto al 2020.
Qualche segnale positivo c’è. Il fotovoltaico ha corso più di tutti: 6,8 gigawatt installati in un anno (ma con una netta prevalenza degli impianti domestici che sono ottimi dal punto di vista paesaggistico ma, da soli, non forniscono la soluzione ideale per l’abbassamento dei prezzi dell’elettricità). Anche l’eolico e il biometano avanzano. Ma la distanza dagli obiettivi è ancora ampia, soprattutto se non si sciolgono i nodi burocratici e infrastrutturali.
La cornice europea e gli alleati del gas
Il contesto resta ambivalente. L’Italia ha in pancia più di 11 miliardi dal piano REPowerEU per accelerare il passo, e Terna investirà 23 miliardi in dieci anni per rafforzare la rete e collegarla meglio al Mediterraneo. Al tempo stesso, però, il gas rimane una pedina centrale: nuovi accordi con l’Algeria e l’espansione delle pipeline dimostrano che il Paese non ha intenzione di recidere il legame con i fossili.
Un quadro contraddittorio: da un lato semplificazioni, incentivi e investimenti; dall’altro un forte ancoraggio al gas e resistenze locali. Sarà questa la volta buona per sbloccare le rinnovabili? O il semaforo verde convivrà con il freno a mano tirato?