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Colpevoli di iperconnessione

28.08.2024

Si chiama “Sunshine Guilt”. Ed è il senso di colpa che sviluppiamo per non aver sfruttato una bella giornata di sole. Diffusa maggiormente tra i giovani, è un fenomeno che riguarda tutti. Ma le generazioni più esposte ai social network pagano il prezzo più alto.

Vi è mai capitato di sentirti in colpa per non aver approfittato di una bella giornata di sole per fare una passeggiata o attività all’aria aperta? E aver preferito un po’ di relax tra le mura domestiche, magari con l’intenzione di godersi un bel film dalla comodità del divano. Un film che alla fine poi non vi siete goduto così tanto, perché avete pensato “forse con queste temperature è stato un peccato restare chiuso in casa”. Ecco, questa sensazione ha adesso un nome: Sunshine Guilt. Ma che cosa significa?

Letteralmente, si traduce con “senso di colpa della luce del sole”, ed è imparentato con il forse più noto “FOMO”, Fear of Missing Out, la paura di essere tagliati fuori. Nel complesso, entrambe rappresentano una forma di ansia sociale, e dunque niente di nuovo. Perché la paura dell’esclusione e il rimpianto di un’occasione perduta sono sentimenti primordiali, intrinsechi all’uomo inteso come animale sociale, aristotelicamente parlando. Eppure, nel corso dell’ultimo decennio, queste sensazioni hanno preso una nuova forma, certamente più aggressiva, alimentata dai social network. Una nuova forma che il fumettista romano Zerocalcare, nella sua prima serie animata, Strappare lungo i bordi, ha racchiuso in una delle battute diventate più celebri: «E semo pure stupidi. Perché se impuntamo a fa’ il confronto co le vite degli altri. Che a noi ce sembrano tutte perfettamente ritagliate, impilate, ordinate. E magari so così perfette solo perché noi le vediamo da lontano». Vite che dall’esterno sembrano così perfette e così piene da creare senso di inadeguatezza in chi le osserva, soprattutto quando fuori c’è bel tempo.

Un fenomeno, questo, che colpisce in modo particolare le nuove generazioni, più esposte ai social media e ai loro effetti. Dunque, oltre a subire le tradizionali pressioni sociali, tipiche della società contemporanea, si trovano a far fronte agli effetti collaterali dell’interazione digitale, che, come spiega Emily Hemendinger, docente presso il Dipartimento di Psichiatria dell’Università del Colorado, li ha spinti – «a equiparare la propria autostima a quanto sono impegnate, a quello che ottengono o a quello che fanno». E il prezzo che rischiano di pagare, soprattutto i più fragili, è altissimo: entrare in questo circolo vizioso, infatti, rischia di accentuare disturbi ansiogeni e depressivi già presenti, o di indurre a un costante auto-rimprovero. E così, quella giornata di relax, ha tutte le potenzialità di diventare una fonte di stress. Ma dobbiamo imparare a stare offline. Con lo smartphone e con la testa. Perché ogni tanto ci farebbe davvero bene.

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