Dove pochi mesi fa sfrecciavano auto affacciate sull’Oceano Pacifico, ora ci sono panchine di legno, skate park, installazioni artistiche e famiglie a passeggio. E no, non ci troviamo in un paesaggio utopico, ma a San Francisco, nella “Sunset Dunes”, un parco urbano lineare lungo tre chilometri sorto laddove, poco prima, correva la Great Highway, una storica arteria stradale.
Una trasformazione, questa, che è avvenuta come conseguenza a due eventi catastrofici: la pandemia e l’erosione costiera. La metamorfosi della Great Highway, infatti, è cominciata con le chiusure dovute al Covid, quando la città, come altre nel mondo, ha iniziato a sperimentare le cosiddette “slow streets”, ovvero strade chiuse al traffico delle auto e restituite a pedoni e ciclisti.
Con il tempo, però, l’emergenza sanitaria è rientrata. Ma i cambiamenti del territorio non si sono fermati: l’avanzata dell’oceano minacciava le infrastrutture, e così, nel 2024, San Francisco ha deciso di rendere permanente la chiusura del tratto centrale della strada.
Tra proteste ed entusiasmo
L’idea è piaciuta a molti, con il 55% dei cittadini che ha votato a favore della riconversione, ma ha anche sollevato non poche proteste nei quartieri confinanti. La vittoria del “no” in queste aree, infatti, è arrivata a toccare picchi dell’80%, con i cittadini che hanno vissuto come tradite le promesse elettorali.
E come spesso capita in questi casi, la resistenza, più che urbanistica, è culturale: quanto siamo disposti a rinunciare all’auto per guadagnare in vivibilità? C’è chi, per esempio, sostiene che i pochi minuti in più al volante valgono meno del nuovo spazio verde; per altri, è l’ennesima tappa di una “guerra alle auto” che colpisce soprattutto chi non può fare a meno di guidare.
Eppure i numeri dicono che una scelta è stata fatta: il parco è già il terzo più frequentato della città, le attività commerciali nei dintorni registrano aumenti di clienti e gli eventi pubblici attirano migliaia di persone. Insomma, stando ai fatti, per ora la scelta verde sembra essere quella vincente.
L’Europa in bilico tra pedonalizzazioni e retromarce
Dunque, quella che arriva da San Francisco è sicuramente una bella storia, ma non è certamente una storia isolata. In tutto il mondo, infatti, durante e dopo la pandemia molte città hanno approfittato della crisi per cambiare paradigma: meno auto, più spazio alle persone.
E gli esempi sono numerosissimi: da Firenze a Roma, da Parigi a Oslo, da Barcellona a Madrid. Tutte città, queste, che insieme a molte altre si stanno reinventando, anche a piccoli blocchi, per una città a misura d’uomo. Ma perché sono trasformazioni importanti?
Il primo effetto tangibile è la diminuzione dell’inquinamento atmosferico. Ad esempio, a Madrid l’introduzione dell’area “Madrid Central” ha ridotto i livelli di biossido di azoto fino al 32% in alcune zone. Ancora, a Milano, l’”Area C” ha portato a una riduzione del traffico privato del 30% e a un calo consistente delle emissioni inquinanti, migliorando la qualità dell’aria del centro storico.
Anche il rumore urbano, spesso trascurato, diminuisce: a Barcellona, nei cosiddetti Superilles, isolati urbani dove le auto non hanno accesso e lo spazio è dedicato interamente a pedoni, ciclisti e al verde, il rumore del traffico è calato del 33%, restituendo il silenzio e il benessere ai residenti.
Altri benefici, poi, si riscontrano a livello sociale: queste aree, infatti, diventano spesso spazi dove anziani, bambini, famiglie e persone con disabilità possono muoversi in sicurezza. Insomma, dove prima c’erano parcheggi e traffico, oggi ci sono panchine, alberi, giochi, mercati e spettacoli. Ad Oslo, dove dal 2019 il centro è quasi interamente senza auto il risultato è più socialità, zero incidenti mortali nel centro urbano e un boom nel commercio di prossimità.
Insomma, dove esistono, queste aree hanno un discreto successo. Ma non sono sempre rose e fiori. A Parigi, per esempio, la sindaca Anne Hidalgo ha fatto della riduzione del traffico il cuore della sua politica, chiudendo alle auto parte della riva destra della Senne a promettendo la “città dei 15 minuti”. Eppure, il backlash non è mancato: in vista delle Olimpiadi 2024, numerosi lavori di riqualificazione urbana sono stati accusati di eccessiva fretta e poca partecipazione.
Anche in Italia la trasformazione è in corso, seppur con passo incerto. Per esempio, a Milano alcune iniziative sono andate a buon fine, mentre altre si sono arenate davanti alla necessità di mediazione politica. Anche a Roma, la prima decisione di chiudere via dei Fori Imperiali alle auto aveva diviso l’opinione pubblica, mentre la recente pedonalizzazione di Via Ottaviano, nei pressi di San Pietro, è stata accolta con più favore.
Tirando le somme, ciò che emerge è un elemento ricorrente: ogni volta che si tolgono auto da una strada i critici parlano di gentrificazione mascherata: lo spazio pubblico migliorato spesso alza i valori immobiliari e allontana i residenti storici. I sostenitori, dal canto loro, invocano i benefici, sia in termini di vivibilità, che ambientali e di salute.
E se la svolta ecologica è una necessità, lo è anche la capacità di gestirla in modo democratico, trasparente e inclusivo. In altri termini serve più progettazione partecipata.