18 Maggio 2025
/ 16.05.2025

Contro il disastro della fast fashion nasce Slow Fiber

L'industria tessile è tra i principali produttori di emissioni di CO2 e di rifiuti solidi: contribuisce per il 10% alle emissioni globali di CO2 e per il 20% al consumo di acqua nel mondo. Slow Fiber è un movimento nato per riparare questi guasti

Sulla carta dal primo gennaio di quest’anno è scattato in tutta l’Unione Europea l’obbligo di raccolta differenziata per i rifiuti tessili, una mossa che fa ben sperare per fermare un sistema della moda che ha un impatto devastante, tra produzione esagerata e consumo sfrenato. Come però denuncia Slow Fiber – un movimento che dal 2022 propone un approccio radicalmente diverso alla produzione e al consumo tessile, e che si propone di seguire la strada seguita a suo tempo da Slow Food – la buona intenzione non ha trovato di fatto riscontri concreti nelle azioni, come spesso accade per la mancata presentazione di un decreto attuativo. 

E così, a distanza di mesi dall’entrata in vigore dell’obbligo Ue, la situazione rimane problematica: scarsa consapevolezza tra i cittadini, in molte città assenza di cassonetti dedicati e, laddove presenti, una differenziata spesso mal eseguita per mancanza di informazioni adeguate. Tutto questo nonostante siano previste multe fino a 2.500 euro per chi getta i rifiuti tessili nell’indifferenziato.

Un rifiuto difficile

L’industria tessile è tra i principali produttori di emissioni di CO2 e di rifiuti solidi, contribuendo per il 10% alle emissioni globali di CO2 e consumando il 20% dell’acqua utilizzata nel mondo. E l’Italia si è mossa in anticipo rispetto all’obbligo europeo, introducendo la differenziata per i rifiuti tessili già dal 1° gennaio 2022 (DL 116/2020). Però, come denuncia l’associazione, per adesso i risultati sono del tutto insufficienti. “Quello tessile è un rifiuto complicatissimo – spiega Dario Casalini, fondatore e presidente di Slow Fiber – perché andrebbe disassemblato. Se ha fibre miste, dovrebbero essere separate, e non sempre è possibile a livello meccanico o chimico. E poi andrebbero disassemblate le parti con composizioni disomogenee rispetto a quella che si vuole riciclare. Con le attuali quantità di rifiuti tessili prodotti, in crescita costante, è un’impresa titanica”.

Slow Fiber è nata nel 2022 dall’incontro tra i principi del movimento Slow Food e alcune aziende virtuose della filiera tessile italiana. La rete, che oggi conta circa 30 aziende, si propone di promuovere un modello produttivo basato sulla creazione di prodotti belli, sani, puliti, giusti e durevoli. Il timore è che il riciclo diventi un pretesto per non affrontare alla radice un problema ben più serio: la sovrapproduzione e l’iper-consumismo. Convincere il consumatore che “tanto si può riciclare” rischia di creare una pericolosa trappola. Secondo Casalini, “il problema maggiore, in termini di inquinamento, è il volume della produzione. Il modello attuale si basa sullo spreco e lo scarto, con quasi la metà dei vestiti prodotti che vengono sprecati. Secondo i dati disponibili, si produce circa il doppio del necessario”.

Produrre meno, produrre meglio

L’idea fondamentale di Slow Fiber è che si debba “produrre molto di meno e molto meglio”, creando capi fatti per durare molto più a lungo. Questo richiede un cambiamento culturale sia nei consumatori che nei produttori, e include temi come l’ecodesign, la qualità del prodotto, l’uso corretto delle risorse naturali rispettando il tasso di rigenerazione, il non sfruttamento delle persone e la riduzione degli impatti ambientali. Casalini evoca il passato, quando riparare i vestiti era normale e gli indumenti erano oggetti che si trasmettevano di generazione in generazione perché durevoli. “Negli ultimi 30 anni, abbiamo completamente disimparato a riparare, e il sistema ha reso la gestione del rifiuto tessile diseconomica e complicata”.

L’Unione Europea sta avanzando verso un sistema di Responsabilità Estesa del Produttore nel settore tessile. Entro il primo quadrimestre 2025, ogni Stato membro dovrà recepire il testo normativo, che renderà i produttori responsabili dei rifiuti generati dai loro prodotti. Questo sistema prevede che i produttori paghino una tariffa proporzionale all’impatto ambientale dei loro prodotti: “Chi inquina di più, paga di più”. Una misura che Casalini considera utile, “perché dovrebbe convincere il sistema a produrre molto meno”, ma non sufficiente se non accompagnata da un cambiamento paradigmatico. 

“Quello che non vorremmo che accadesse è, dopo aver introdotto una responsabilità dei produttori, continuare a spedire la maggior parte dei rifiuti tessili nel sud globale, oppure averne una percentuale gestita male,” continua Casalini. “La quantità attuale di capi prodotti e gettati è grandissima e continuerà a crescere, così com’è non è gestibile nel tempo. Continuare a inseguirla è un palliativo”.

Il movimento è passato dai 14 fondatori alle attuali 28 aziende aderenti in circa due anni, con l’obiettivo di salvaguardare la parte virtuosa della filiera che si impegna sui valori definiti, lungo tutti i passaggi: dalla fibra alla filatura, dalla tintoria alla tessitura, fino al prodotto finito. Attualmente Slow Fiber opera principalmente in Italia, con criteri di misurazione basati sull’ordinamento italiano ed europeo, ma l’ambizione è di espandersi all’estero, creando reti virtuose internazionali e collaborando con Slow Food per campagne di sensibilizzazione del consumatore finale. Casalini ha anche scritto un libro, “Vestire buono, pulito e giusto. Per tornare a una moda sostenibile”, che è un po’ diventato il manifesto del movimento, un’introduzione ai principi di Slow Fiber. 

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