31 Maggio 2025
/ 29.05.2025

Contro la CO2 le pensano tutte. Anche spargere roccia frantumata sui campi

Può sembrare un’idea bislacca per combattere la CO2 e in effetti ha varie controindicazioni pratiche. Ma sfrutta un principio naturale e comporta benefici in termini agricoli. Certo, bisogna scavare, trasportare e spargere sui campi una quantità di materiale pari alla massa di un monte come il Cervino

Tra tante idee balzane partorite dagli scienziati per assorbire la CO2 nell’ambito della cosiddetta geoingegneria, questa non è neanche una delle peggiori. Questa disciplina studia le possibili soluzioni da applicare su scala globale per cercare di eliminare dall’atmosfera, e in quote significative, i gas serra che da due secoli l’umanità sta diffondendo bruciando fossili. La soluzione di cui vi parliamo ha il vantaggio di essere una soluzione “naturale”, e anche tradizionale, che peraltro migliorerebbe anche la resa delle coltivazioni agricole. Ha il non piccolo svantaggio di comportare – ogni anno – l’escavazione, il trasporto e lo spargimento sui campi di una quantità di materiale pari alla massa di un monte come il Cervino.

Stiamo parlando dell’idea di spargere sui campi coltivati tanta, tantissima polvere e frantumi di roccia, al fine di “catturare” la CO2 presente in atmosfera e immagazzinarla per secoli, se non millenni. Il principio si chiama enhanced rock weathering, o invecchiamento accelerato, e si basa su un fenomeno naturale: l’erosione delle rocce silicatiche – come il basalto, una roccia di origine vulcanica che contiene anche calcio e magnesio – che, a contatto con l’acqua e l’anidride carbonica, mette in moto reazioni chimiche capaci di intrappolare il carbonio sotto forma di bicarbonati minerali. Possono restarci per un lungo periodo, e poi attraverso la normale erosione passare per i fiumi e finire negli oceani, per restarci per millenni. La proposta è quella di accelerare il processo naturale, che avviene in tempi geologici, riducendo rocce in polvere e frammenti, e spargendole nei campi, con la conseguenza positiva di migliorare anche la fertilità del suolo. E dunque aumentare le rese agricole.

Rese dei campi aumentate

Uno studio pubblicato nel febbraio 2024 ha dato risultati inaspettati. I ricercatori, David Beerling, un biogeochimico dell’Università britannica di Sheffield, e Evan DeLucia, un fisiologo delle piante dell’University of Illinois Urbana-Champaign, hanno trattato diversi ettari di coltivazioni di mais e soia con polvere di basalto, osservando un assorbimento extra di dieci tonnellate di CO2 per ettaro in quattro anni, rispetto ai campi di controllo. Non solo: le rese sono aumentate del 12-16%, e in alcune coltivazioni di miscanthus – un’erba usata per produrre biocarburanti – addirittura tra il 29 e il 42%. 

Numeri che hanno attirato l’attenzione del settore privato, con aziende agricole e start-up ora impegnate a testare il metodo su scala sempre più ampia. Dalla britannica Undo Carbon alla tedesca InPlanet, passando per la statunitense Lithos e la indiana Mati Carbon, sono già decine le realtà impegnate in progetti su cinque continenti. C’è chi sperimenta il basalto, chi la wollastonite – che reagisce più rapidamente – e chi punta a combinare diversi materiali per massimizzare i risultati. In Brasile, ad esempio, InPlanet ha già sparso 50.000 tonnellate di polvere di roccia su terreni agricoli, e prevede di quadruplicare la cifra nel giro di un anno.

Un potenziale enorme

Il potenziale è enorme. Secondo Beerling, se la pratica venisse adottata su scala globale si potrebbero rimuovere dall’atmosfera fino a due miliardi di tonnellate di anidride carbonica all’anno. Ma il prezzo da pagare non è trascurabile: servirebbero circa 13 miliardi di tonnellate di basalto frantumato ogni anno. Praticamente una massa di 4,5 chilometri cubici, pari a quella del monte Cervino, alto 4.478 metri, da spalmare ogni 12 mesi sulla superficie del pianeta. Per fortuna il basalto è il materiale più abbondante che ci sia nella crosta terrestre. Ma ne servirebbe proprio tantissimo.

Non sarebbe certo semplice. È vero pure che anche altre “grandi idee” per non diffondere i gas serra che scombinano il clima sono ugualmente costose, energivore, forse più pericolose, e probabilmente molto più futili. Qualche esempio: la CCS, la Carbon Capture & Storage, lo spargimento in atmosfera di zolfo per bloccare i raggi del sole, o di ferro negli oceani per far crescere alghe. 

Problemi titanici

Nel caso della polvere di roccia i problemi da risolvere sono titanici. Il primo è logistico: macinare, trasportare e spargere miliardi di tonnellate di roccia richiede energia, mezzi, infrastrutture. E, inevitabilmente, produce emissioni. Ma secondo gli scienziati il saldo sarebbe positivo anche calcolando l’impronta di carbonio dell’intero processo. Secondo, non sapremo mai esattamente misurare caso per caso quanta CO2 abbiamo veramente stoccato. Le reazioni chimiche dipendono da molti fattori: tipo di suolo, acidità, clima, granulometria del materiale. Infine, ci sono i costi umani e ambientali delle attività estrattive. Nei Paesi più poveri in questo tipo di industrie ci sono milioni di lavoratori senza diritti e tutele, e sarebbero loro a pagare (in termini di salute, condizioni di lavoro, incidenti) il vero costo dell’operazione.
Però l’interesse c’è. I primi contratti di vendita di crediti di carbonio legati alla tecnica sono già realtà, e le proiezioni sono ambiziose. Secondo alcuni studi, coprendo con dieci tonnellate di roccia ogni ettaro di terreno agricolo si potrebbero assorbire più di 200 miliardi di tonnellate di CO2 in 75 anni. Anche se la stima è ottimistica, secondo un articolo pubblicato su Nature da Beerling e il suo team di ricerca basterebbe rimuovere 2 gigatonnellate all’anno per coprire il 20% dell’obiettivo globale di riduzione entro il 2050. E nei villaggi indiani dove Mati Carbon ha distribuito gratuitamente basalto, i raccolti di riso sono cresciuti fino al 70%, e il risparmio su fertilizzanti ha migliorato il reddito degli agricoltori del 30%. Sembra incredibile, ma forse è solo geochimica applicata.

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