La porta girevole che mette in comunicazione la politica climatica con gli interessi industriali non è mai stata così attiva. A Belém, dove la Cop30 è entrata nel vivo, più di 1.600 lobbisti dei combustibili fossili hanno ottenuto l’accredito ai negoziati.
Una presenza senza precedenti
Secondo l’analisi della coalizione Kick Big Polluters Out (Kbpo), significa che un partecipante su 25 rappresenta l’industria del petrolio, del gas o del carbone: una densità mai registrata prima nel processo Onu sul clima. Numeri che superano ogni delegazione nazionale a eccezione del Brasile, Paese ospitante.
Il dato – un aumento del 12% rispetto alla Cop29 di Baku – non si traduce in un picco assoluto, ma in una concentrazione maggiore, complice una conferenza meno affollata. In cinque anni, il totale dei lobbisti ammessi raggiunge quota 7.000, mentre gli impatti della crisi climatica accelerano. È in questo contesto che Lien Vandamme del Center for International Environmental Law (Ciel) sintetizza così la situazione: “Questo è un assalto aziendale, non una governance climatica”.
La sproporzione è evidente anche rispetto alle delegazioni dei Paesi più colpiti dagli effetti della crisi climatica. I lobbisti superano di quasi 50 a 1 i delegati delle Filippine, reduci da due tifoni devastanti in meno di una settimana; di 44 a 1 quelli dell’Iran, dove la siccità sta spingendo il governo a valutare l’evacuazione di Teheran; di 40 a 1 la delegazione della Giamaica, ancora impegnata a gestire la distruzione lasciata dall’uragano Melissa.
Trasparenza limitata e tavoli fermi
La pressione dell’industria si accompagna a un’altra zona grigia: più della metà delle delegazioni nazionali non ha reso pubbliche le affiliazioni professionali dei propri membri, come rilevato da Transparency International. Le norme di trasparenza introdotte quest’anno non si applicano ai gruppi governativi, lasciando ampie aree opache.
A luglio, la Corte internazionale di giustizia ha stabilito che espansione ed estrazione dei combustibili fossili possono configurare un illecito internazionale. Per Elisa Morgera, relatrice Onu sul clima, il conflitto di interessi è ormai paragonabile a quello dell’industria del tabacco. Eppure aziende e associazioni di settore continuano a muoversi dentro il cuore dei negoziati: tra i 1.602 lobbisti identificati da Kbpo figurano rappresentanti della International Chamber of Commerce, dell’Ieta (dove compaiono ExxonMobil, Bp e TotalEnergies) e della Confederazione nazionale brasiliana dell’industria.
Nel frattempo, il tavolo negoziale è fermo. Nonostante la presidenza brasiliana abbia diffuso una prima bozza che mira al rinnovo dell’impegno dell’Accordo di Parigi, a una road map per l’uscita dai combustibili fossili e alla scienza come bussola, i capitoli cruciali—riduzione delle emissioni e finanziamenti ai Paesi più vulnerabili—restano bloccati. Da Bruxelles, il Parlamento europeo ha approvato l’obiettivo del -90% delle emissioni entro il 2040, ma questo slancio non sembra contagiare Belém.
Intanto, nei corridoi della conferenza la frustrazione cresce. Nerisha Baldevu di Friends of the Earth Africa denuncia: “Le multinazionali dei combustibili fossili stanno distruggendo le nostre comunità. Eppure il tappeto rosso è steso affinché i lobbisti possano vagare nei corridoi”.
Le richieste di un’informazione libera dalla disinformazione climatica trovano spazio in un impegno congiunto di dieci Paesi, dal Brasile alla Germania. Ma ciò non scioglie i nodi di una conferenza dove il divario tra chi vive la crisi e chi la influenza rimane evidente. E dove, mentre il termometro globale punta verso un altro anno da record, i negoziati restano sospesi, tra bozze e stalli.
