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Cultura

Cosa vuole dirci il Presepe?

13.12.2023

È il segno più evidente della tradizione natalizia? A Napoli, nel realismo delle sue rappresentazioni, da simbolo religioso è diventato mezzo identificativo della comunità d’appartenenza. Accoglie cronaca e attualità, con il richiamo della preziosa artigianalità settecentesca del Museo di San Martino e il dinamismo del quartiere Sanità.

Farsi avvolgere dal clima festoso di una città, coacervo di contraddizioni e sorprese, si traduce in un viaggio nel cuore di leggende popolari, grandi rituali, risalenti al mito solare di un divino Bambino partorito da una Madre Vergine, per accedere, poi, al mondo onirico della tradizione natalizia. Succede a Napoli, dove il pendolo tra rispetto e devianza, paganesimo consumistico e valori di una volta, si trasforma in un’incoercibile vocazione a rappresentarsi.

Ed è proprio il presepe uno dei momenti della condivisione, perché qui si continua ad avere dimestichezza col mito (dalla sirena fondatrice Partenope in poi) e ad amare il racconto. Lassù, sopra la collina del Vomero, dall’alto della Certosa di San Martino (1325), con lo sguardo che abbraccia la città, il percorso presepiale del ‘700 più celebre al mondo (1879), di Michele Cuciniello (1823), architetto, drammaturgo e collezionista, lì custodito, affascina, nella dovizia dei particolari, stoffe, statuette dagli sguardi parlanti, grazie alla rappresentazione baroccheggiante “colta” (privilegio della neoborghesia) già di per sé teatralizzata, che abbandona la Palestina e si trasferisce sul golfo, in un agglomerato (tra‘600 e ‘700,  insieme a Parigi, il più grande d’Europa) con tutta la sua varia umanità di lazzari, lavandaie, fruttivendoli, calzolai, trafficanti, vignaioli, macellai, tra il rudere di un tempio romano ad accogliere la Natività e l’annuncio a sorpresa dell’angelo ad un nugolo di pastori e mandriani, oltre agli avventori della taverna, vivande e salsicce appese, e l’arrivo dei preziosi Re Magi, di legioni di mori, mongoli e arabi, modello multiculturale ante litteram.

Ma, ora, quasi per contrappunto, diventa necessario immergersi nelle profondità del Rione Sanità, custode delle catacombe di San Gennaro, e scoprire il Presepe favoloso (scrigno di favole), nella sagrestia della Basilica di Santa Maria, donato nel 2021 dall’ immaginifica bottega La Scarabattola dei fratelli Scuotto. Simbolo della rinascita di un intero quartiere, grazie all’entusiasmo della Cooperativa della Paranza, all’inventiva scenografica di Biagio Rosciano, e alle energie inesauste del parroco Padre Antonio Loffredo, che, tra queste strade abitate dal disagio sociale, ha individuato proprio nel presepe una sorta di specchio. La modernità attinge al passato. Nella teca tutto diventa messinscena dinamica, e lì si affollano Giacomino, pastore sognante, scugnizzi, incappucciati in processione, la zingara-sibilla, un bimbo che palleggia con un’arancia e sembra Maradona, Totò, Eduardo vestito da Pulcinella, Ciro figlio della guerra, Belfagor e femminelli, e il nuovo arrivato San Francesco che parla al lupo, sul filo dantesco dal cielo agli inferi e ritorno, con i diavoli che ricompaiono e gli umani disorientati tra bene e male. Un mondo in sospensione, come Napoli da più di duemila anni, ma sempre a favore della donna, contro il razzismo, le guerre. Verso la luce. Il confine tra la religiosità devozionale di un intero popolo (anche miracolistica, vedi San Gennaro), e quel sentimento laico mirato all’essenziale, tra gente multicolore e multietnica, cela un significato recondito:

«Il presepe è la buona novella che diventa presente. È la Natività che rinasce, si fa storia viva, universale e locale, dovunque. A Napoli la nascita di Gesù bambino ha come sfondo il Vesuvio, è un “Vangelo in dialetto”» (Marino Niola, antropologo). Ha ragione Walter Benjamin: quello che il presepe napoletano riesce a dire è «la verità della vita, la storia dentro il mito».

Presepe Scuotto favoloso, scena natività. Foto di Sergio Siano.
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