C’è un popolo che non compare nei confini, non attraversa frontiere né chiede asilo. Eppure è il più numeroso tra i migranti forzati: 83,4 milioni di persone costrette a fuggire dalla propria casa ma non dal proprio Paese. Sono gli sfollati interni, i dimenticati della geopolitica. Secondo l’ultimo rapporto dell’IDMC (Internal Displacement Monitoring Centre) e del Norwegian Refugee Council, mai come oggi il numero di sfollati è stato così alto. E la tendenza è in crescita. Nel 2018 erano 55 milioni. In sei anni, l’aumento è stato del 50%.
Guerra, clima e povertà: la tempesta perfetta
A spingere milioni di persone lontano dalle loro abitazioni non è solo la guerra, anche se resta la causa principale: basti pensare al Sudan, dove oltre 11 milioni di persone hanno dovuto abbandonare tutto per salvarsi dai combattimenti. Oppure alla Striscia di Gaza, dove alla fine del 2024 quasi l’intera popolazione era stata sfollata. Ma a pesare sempre di più sono anche i disastri naturali e gli effetti a catena del cambiamento climatico.
Nel 2024 si sono registrati 10 milioni di nuovi sfollati per eventi climatici estremi, un dato che è raddoppiato rispetto a cinque anni fa. Uragani, incendi, alluvioni, siccità e frane stanno colpendo con sempre maggiore frequenza e intensità. Negli Stati Uniti, per esempio, gli uragani Helene e Milton hanno spinto milioni di persone a evacuare le proprie abitazioni. Il dato globale parla chiaro: quasi un quarto di tutti gli sfollamenti del 2024 (11 milioni) è avvenuto negli USA, spesso a causa di disastri legati al clima.
Il corto circuito dell’emergenza permanente
Il problema non è solo il numero, ma la durata e la qualità dello sfollamento. In molti casi le persone restano bloccate per anni in situazioni precarie, senza accesso a casa, lavoro o servizi. L’IDMC sottolinea che oltre il 75% degli sfollati per conflitto vive in aree vulnerabili agli impatti climatici. Guerre e clima si intrecciano, creando un corto circuito: il conflitto distrugge le infrastrutture, il clima rende invivibili le aree rimaste.
Questo significa che milioni di persone si trovano intrappolate in una spirale di emergenze: prima scappano dalla violenza, poi devono affrontare inondazioni o siccità, spesso senza alcuna protezione. La crisi è permanente, non più un’eccezione.
Meno aiuti, più abbandono
A rendere ancora più cupo il quadro, c’è il progressivo disimpegno della comunità internazionale. Il rapporto denuncia un taglio consistente ai finanziamenti per gli aiuti umanitari, in particolare dagli Stati Uniti. Gli sfollati interni, rispetto ai rifugiati che attraversano i confini, ricevono meno attenzione, meno fondi, meno supporto. Eppure, sono molti di più. Il mondo sembra voltarsi dall’altra parte, proprio mentre il bisogno cresce.
Non si tratta di una tragedia lontana. Il cambiamento climatico, la crisi economica e la destabilizzazione geopolitica stanno rendendo sempre più poroso il confine tra chi accoglie e chi fugge. Gli sfollati interni sono il segnale d’allarme di un sistema globale che non regge più. Le cause strutturali – disuguaglianze, crisi climatica, scarsità d’acqua, lotte territoriali – sono le stesse che minacciano anche le società più ricche, magari sotto forma di migrazioni climatiche future o di nuovi conflitti per le risorse.
Serve un cambio di passo
Il primo passo, suggerisce il rapporto, è riconoscere la portata del fenomeno. Gli sfollati non sono una nota a margine, ma il termometro più sensibile della salute del nostro mondo. Serve una strategia internazionale che affronti insieme le cause ambientali, economiche e politiche degli spostamenti forzati. Servono risorse, pianificazione, diritti. Altrimenti, quei milioni di persone che oggi non attraversano i confini potrebbero essere solo l’inizio di un’ondata ben più ampia, che nessuna barriera sarebbe in grado di contenere.