30.09.2023
Avere caccia, carri armati, radio e camion tutti uguali sarebbe la scuola di pensiero della soluzione più semplice. Ma non basta, perché collaborare significa accordare le priorità delle minacce e sostenere le capacità comuni, e c’è chi vuole fare da solo.
Sprechi e duplicazioni, costi crescenti, sfide globali. Sono questi i motivi addotti più di frequente a sostegno dell’idea di una difesa comune europea. Riportando la guerra sul continente europeo, la crisi ucraina ha messo sotto gli occhi la necessità di coordinare una risposta comune di politica, sia estera sia di difesa. Di fronte alla difficoltà di dare soluzione univoca al futuro assetto dello scacchiere (in altre parole, contrapposizione o convivenza con la Russia, a prescindere dal suo assetto politico interno), la dimensione tecnica sembra più facile e asettica.
Proprio la necessità di sostenere l’Ucraina ha infatti evidenziato l’ampia gamma di armamenti utilizzati dai singoli paesi all’interno di una stessa categoria. Per semplificare, la NATO ha standardizzato i calibri delle munizioni (5,56 mm per i fucili d’assalto, 155 mm per i cannoni), ma non le armi che le sparano, con implicazioni immaginabili su manutenzione e riparazioni. Secondo tale scuola di pensiero, se tutte le forze armate europee (cioè, dell’Unione Europea) avessero gli stessi caccia, carri armati, radio e camion, tutto sarebbe più semplice e meno costoso.
Ma come sempre bisogna diffidare da chi propone soluzioni semplici per sfide complesse. Dietro ogni problema di difesa stanno l’identificazione e prioritizzazione delle minacce e lo sviluppo e produzione di sistemi idonei – in altre parole, scelte politiche e industriali che possono variare da paese a paese. Mentre Italia, Germania e Regno Unito hanno da tempo compreso l’utilità di collaborare allo sviluppo di aerei militari, la Francia persegue con ostinazione il mantenimento di capacità interamente nazionali. Si badi: proteggere capacità tecnologiche, livelli occupazionali ed esportazioni è obbiettivo lodevole, che ciascun Paese persegue in modo legittimo. Ma è anche un ostacolo concreto alla collaborazione, che rende improponibile usare soldi propri per sostenere capacità comuni. Il risultato è che, per la terza volta in 60 anni, in Europa si stanno sviluppando per uno stesso obbiettivo GCAP e SCAF, due caccia in concorrenza l’uno con l’altro pur ispirandosi a una visione apparentemente comune dei futuri conflitti. E così via ritardi, costi, doppioni.
Ma supponiamo che nel 2024 si riescano a bilanciare gli interessi e le risorse e che, coordinando gli acquisti e la ricerca, nel 2034 le forze armate dei Paesi europei abbiano dotazioni omogenee, procedure comuni, comandi unificati e un elevato grado di prontezza. Basterebbe? In realtà no, perché nell’attuale quadro giuridico le forze armate (come la polizia, i tribunali e tante altre attività) restano sotto stretto controllo nazionale. Senza sciogliere questo nodo, nel 2035 la difesa comune si troverebbe – in termini operativi – a dover chiedere come oggi gli stessi consensi ad hoc ai 28 diversi Paesi UE.
La difesa europea non è, insomma, un problema tecnico, ma una questione di volontà politica di trasferire responsabilità a un livello sovranazionale. Parafrasando Clausewitz, “la difesa europea è la continuazione della politica europea con altri mezzi”.