16 Maggio 2024
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Economia

Dove abita la Grande Bellezza del saper fare italiano?

26.11.2023

«Gli italiani sono abituati, fin dal Medioevo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo». Un bene immateriale che si fa industria. Un modo di esprimere l’identità e le tradizioni italiane attraverso il “saper fare” delle imprese che rende il Made in Italy un marchio apprezzato a livello globale.

Anche J. W. Goethe adagiato in una campagna alle porte di Roma, nell’immagine iconica del Grand Tour, avrebbe condiviso lo storico Carlo Maria Cipolla e il suo: «Gli italiani sono abituati, fin dal Medioevo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo». Forse l’economia della bellezza nasce proprio lì, da quella singolare alchimia tra radici storiche e cambiamenti, come documentato da un articolato Rapporto dell’Ufficio Studi di Banca Ifis che analizza annualmente i flussi del patrimonio storico-artistico-culturale e di quello naturalistico-paesaggistico con i relativi benefici economici diretti derivanti dalla fruizione, e indiretti legati a tutti i servizi a supporto, trasporti e hospitality. Focalizzando l’attenzione sul senso estetico in tutte le sue declinazioni come supporto a quell’antica cultura manifatturiera, radicata nei territori abituati all’eleganza del prodotto di qualità, dapprima inclinazione, eppoi mezzo per conquistare i più esigenti mercati internazionali.

Così dal tradizionale Made in Italy di abbigliamento, arredamento, agroalimentare, alla chimica, alla farmaceutica, al design, automotive, gioielleria, alla meccatronica e high tech d’avanguardia, si è via via strutturato un vero e proprio ecosistema dell’«Economia della bellezza» e del purpose driven (a scopo sociale), che sfrangiatosi in grandi, medie e piccole imprese con diramazioni capillari in filiere produttive, ha garantito forza e capacità d’ibridizzazione di conoscenze scientifiche e saperi umanistici, puntando sull’innovazione creativa. La cultura politecnica, allora, s’è rispecchiata in un umanesimo industriale dentro l’alveo di reciprocità, che dagli inizi su base d’impresa familiare è poi diventata logica strutturata. Bellezza, dunque, abbinata a qualità, design, equilibrio di forme e funzioni sono stati il viatico condiviso che ha permesso di fronteggiare stagnazione pandemica e crisi belliche, recuperare spazi, rilanciare la competitività. Un esempio è il 75% dei motoryachts italiani (vere ville galleggianti, leggi Ferretti Group) esportato oltreconfine, per tacer della moda che fascia d’eleganza il mondo ed altro ancora.

L’economia italiana della bellezza ha sfiorato i 682 miliardi di euro di fatturato, generando, a fine 2022, un contributo del 26,1 % sul Pil nazionale, nel rimarcare quanto l’eccellenza del marchio Made in Italy tragga origine dal lavoro dei maestri d’arte, ed il «saper fare» artigiano contribuisca ancora al 54% del fatturato manifatturiero complessivo, nel riaffermare come l’artigianalità non rappresenti una semplice (e sterile) ricerca del lusso, ma sia uno strumento concreto per dar forma alle idee, da mettere in campo nella fase di prototipazione (neologismo griffato). Una dinamica che viene identificata da 8 imprese su 10 (delle oltre 350 mila del comparto) come fattore distintivo di competitività sul mercato in grado di rispondere efficacemente al trend del momento e alle nuove mode.

Di certo, nelle trasmissioni d’attività (anche generazionali), resta primaria la strategia di avvalersi dell’imminente decreto governativo con fondo sovrano, per difendere i gioielli di casa e impedire la paventata migrazione all’estero fagocitata dalle mire delle multinazionali. A difesa, pure, di cultura, identità dei territori e una responsabilità sociale indirizzata sempre più all’etica, che appare essere per aziende e consumatori lo scopo vincente del fare impresa. La Grande Bellezza del saper fare italiano abita qui.

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