16 Luglio 2025
/ 16.07.2025

Ecco il costo nascosto del pesce che finisce sulle nostre tavole

Nei Paesi dell’Africa occidentale la pesca artigianale è in crisi: il pesce va alla produzione di mangimi destinati agli allevamenti ittici in Europa e Asia. E i pescatori non hanno abbastanza cibo per la loro famiglia. Così alcuni si trasformano in trafficanti di esseri umani

Nelle comunità costiere dell’Africa occidentale la pesca artigianale, pilastro economico e alimentare per milioni di persone in Paesi come Senegal, Gambia, Mauritania e Guinea-Bissau, è oggi sull’orlo del collasso. A contribuire a questa emergenza sono i pesci che finiscono nei nostri piatti.

La denuncia è arrivata da Mustapha Manneh, attivista ambientale gambiano, che ha parlato davanti alla platea della Conferenza delle Nazioni Unite sugli Oceani. Tonnellate di pesce locale – in particolare specie come la sardina e il pesce bonga – vengono quotidianamente sottratte dalle acque africane per essere trasformate in fishmeal e fish oil, ovvero mangime e olio per pesci allevati, destinati all’acquacoltura in Turchia, Grecia, Cina. E quindi, di rimbalzo, ai supermercati europei.

Dal mare africano alle tavole europee

I pescherecci industriali, spesso con bandiera straniera, prelevano grandi quantità di pesce “povero” in Africa, che però è fondamentale per la dieta e l’economia locale. Il pesce è lavorato in impianti situati in Gambia, Senegal e Mauritania, dove viene trasformato in polvere proteica. Da lì, è esportato verso l’Europa e l’Asia per alimentare orate e spigole negli allevamenti intensivi.

Quello che arriva sulle tavole dei consumatori europei, dunque, è spesso il risultato di un meccanismo che impoverisce intere comunità africane. Come ha raccontato lo stesso Manneh, “i pescatori non riescono più a portare a casa abbastanza pesce neanche per sfamare la propria famiglia. I costi del carburante sono triplicati, i tempi di pesca si sono allungati, ma i guadagni sono sempre più bassi”.

Nel sistema tradizionale africano, erano gli uomini a pescare, ma erano le donne a vendere il pescato nei mercati. Questo equilibrio assicurava una certa distribuzione del reddito all’interno delle famiglie e delle comunità. Oggi, con il crollo della disponibilità di pesce, molte donne hanno perso la loro fonte di sostentamento. I mercati si sono svuotati, i banchi una volta pieni di sardine sono deserti, e per le venditrici il futuro è un’incognita.

A peggiorare le cose, la competizione con flotte straniere è sempre più serrata. Pescherecci cinesi, in particolare, operano con metodi altamente distruttivi come la pesca a strascico – spesso vietata dalle normative internazionali – che devasta i fondali e mette a rischio la biodiversità marina. In Guinea-Bissau, le denunce si moltiplicano: i pescatori artigianali non hanno più possibilità di competere.

Accordi internazionali: soluzione o problema?

Una parte della crisi affonda le radici negli accordi internazionali stipulati tra governi africani e potenze straniere. L’Unione Europea, ad esempio, ha firmato nel 2019 un protocollo con il Gambia che autorizza le navi di Spagna, Francia e Grecia a pescare nelle acque territoriali gambiane in cambio di un compenso annuo di 550.000 euro. Una cifra che appare irrisoria, considerando i danni ambientali e sociali causati.

Un accordo analogo, approvato dal Parlamento Europeo ad aprile, riguarda la Guinea-Bissau e prevede un contributo di cento milioni di euro l’anno. Ma parallelamente, anche da Bruxelles arrivano segnali d’allarme. In una raccomandazione allegata al protocollo con Bissau, il Parlamento ha chiesto maggiore trasparenza e controlli più rigidi sulle attività di pesca. Una richiesta che, però, stenta a tradursi in azioni concrete.

L’onda migratoria

La crisi della pesca è diventata anche una delle cause dell’emigrazione clandestina. In Senegal, sempre più giovani lasciano le coste per raggiungere le Isole Canarie, territorio spagnolo e quindi porta d’accesso all’Europa. In Gambia, racconta Manneh, un viaggio in mare verso l’Europa con una barca piena di migranti può fruttare fino a 200.000 euro: una cifra astronomica per un pescatore locale. Così, chi prima viveva del mare oggi lo usa come via di fuga, o peggio, come strumento per trafficare esseri umani.

Greenpeace Africa, la Fao e numerose associazioni locali chiedono una moratoria immediata sulla produzione di mangimi da specie destinate al consumo umano. L’appello è chiaro: “Il pesce africano deve sfamare gli africani, non gli allevamenti industriali europei”. L’associazione Caopa (Confederazione africana delle organizzazioni di pescatori artigianali) chiede inoltre che gli stock migratori, come quelli delle sardine, siano riservati alla pesca artigianale e gestiti con accordi tra i Paesi africani rivieraschi.

L’Europa ha una responsabilità

Secondo un’inchiesta del The Guardian, la crescente domanda europea di pesce allevato sta contribuendo direttamente a esaurire gli stock ittici africani. E mentre nei supermercati europei si vendono orate e spigole a prezzi accessibili, intere comunità africane perdono l’unica fonte di proteine animali disponibile.

Per questo, le Ong ambientali chiedono all’Ue di rivedere gli accordi di pesca con i Paesi africani, escludendo la pesca di specie destinate al consumo locale e imponendo clausole ambientali vincolanti. In gioco non c’è solo la sostenibilità ambientale, ma anche la giustizia sociale.

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