29 Maggio 2025
/ 27.05.2025

Ecocidio a Gaza

L’esercito israeliano da 19 mesi conduce una distruzione sistematica delle infrastrutture civili, sanitarie, agricole della Striscia di Gaza. All’uccisione di 53.900 persone, tra cui 16.500 bambini, si aggiunge il collasso ambientale come premessa per lo sterminio prodotto dalla carestia e dal dilagare di infezioni e malattie

Forse la parola giusta per descrivere quello che sta avvenendo a Gaza è ecocidio. Portare l’attenzione sull’ambiente potrebbe sembrare riduttivo di fronte a una strage sistematica della popolazione civile che dura da 19 mesi, con 53.900 persone – tra cui 16.500 bambini – uccise dall’esercito israeliano. O di fronte alle scene dell’assalto ai pochissimi aiuti umanitari che riescono a superare lo sbarramento dei carri armati dell’Idf (Israel Defense Forces), mentre gli altri viveri restano a marcire fuori dai confini palestinesi e ad alimentare la fame.

Ma ecocidio, cioè distruzione dell’ecosistema vitale su cui poggiano le basi dell’esistenza umana, è la parola che sintetizza l’orrore che è sceso su quel fazzoletto di terra chiamato Gaza. E serve a immaginare la proiezione del danno nel tempo. 

Secondo l’ultima valutazione geospaziale condotta dalla Fao e dal Centro Satellitare delle Nazioni Unite, meno del 5% della superficie coltivabile della Striscia di Gaza rimane disponibile per la coltivazione. Cioè è stato distrutto il 95% delle risorse alimentari dei due milioni di persone che vagano sotto le bombe. 

Rimangono appena 688 ettari, una superficie 100 volte più piccola del Comune di Ravenna, per alimentare i palestinesi di Gaza. Cioè, più propriamente, per lasciarli morire di fame, visto che lo stato di carestia è stato ormai ufficialmente dichiarato il 7 maggio 2025 dal primo ministro palestinese Mohammad Mustafa, che ha proclamato Gaza “zona colpita dalla carestia” sollecitando un intervento urgente da parte delle Nazioni Unite e della comunità internazionale.

Grazie all’utilizzo di immagini satellitari ad alta risoluzione confrontate con i dati pre-conflitto, è stato rilevato dalla Fao che nella Striscia di Gaza è stato danneggiato il 71,2% delle serre e l’82,8% dei pozzi agricoli. Vuol dire che, bloccando gli aiuti umanitari, è stata eliminata la possibilità di dare cibo e acqua alla popolazione.

Se a questi numeri aggiungiamo quelli dell’inquinamento prodotto dalla devastazione sistematica e prolungata delle infrastrutture civili, sanitarie ed energetiche essenziali, otteniamo un altro elemento del collasso ambientale e sanitario in corso. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), almeno il 94% degli ospedali di Gaza è stato danneggiato o distrutto. L’Oms ha registrato 697 attacchi contro strutture sanitarie a Gaza dall’inizio del conflitto: sono state colpite 122 strutture sanitarie, tra cui 33 ospedali, e 180 ambulanze. Producendo un impatto devastante sulla capacità di fornire cure essenziali alla popolazione. Non sparare sulla Croce Rossa sembrava solo un modo di dire. A Gaza è diventato un appello inascoltato.

La distruzione degli acquedotti e la contaminazione diffusa prodotta dai bombardamenti a tappeto hanno fatto il resto. L’Oms ha rilevato un incremento del 66% dei casi di diarrea tra i bambini sotto i cinque anni e del 55% nella restante popolazione. Altre malattie segnalate includono infezioni respiratorie acute, scabbia, ittero e varicella. La malnutrizione è in aumento, con oltre 9.000 bambini privati della dose indispensabile di cibo. 

È un quadro di tale gravità da aver allontanato nel ricordo emotivo il terribile attacco di Hamas del 7 ottobre che è costato la vita a 1.139 cittadini israeliani secondo il bilancio ufficiale. Ora, 53.900 mila morti palestinesi dopo, è difficile evitare parole pesanti per le decisioni del governo di Netanyahu che, in un Paese mai così spaccato in due, continua a rilanciare una guerra che ha distrutto l’immagine di Israele ma finora gli ha consentito di superare processi, un dissenso sempre più forte e l’opposizione della magistratura.

“La situazione a Gaza è inaccettabile e non resteremo in silenzio. L’indifferenza non è un’opzione, e continueremo a far sentire la nostra voce contro la flagrante violazione del diritto internazionale a Gaza”, ha dichiarato il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez, durante il Consiglio dell’Internazionale Socialista a Istanbul il 24 maggio scorso. Inoltre, il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares ha proposto misure concrete, tra cui la sospensione dell’accordo di associazione UE-Israele, un embargo internazionale sulle armi e l’ampliamento delle sanzioni individuali, anche contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Il Regno Unito ha sospeso i colloqui su un accordo commerciale con Israele, convocato l’ambasciatore israeliano e imposto nuove sanzioni contro i coloni israeliani in Cisgiordania. E il segretario agli Esteri britannico David Lammy ha dichiarato alla Camera dei Comuni: “L’offensiva rinnovata di Israele a Gaza è moralmente ingiustificabile. I piani israeliani di epurazione etnica della Striscia di Gaza sono estremisti, pericolosi, ripugnanti e mostruosi, e li condanno nei termini più forti possibili”.

Una condanna che si allarga oltre l’Europa. Il primo ministro australiano, Anthony Albanese, ha definito il blocco degli aiuti umanitari da parte di Israele come “completamente inaccettabile” e “oltraggioso”, sottolineando che le giustificazioni israeliane per il blocco degli aiuti sono “insostenibili e prive di credibilità”.

Ora il tema politico è uno solo. L’Unione Europea ha gli strumenti economici e diplomatici per esercitare una forte e concreta pressione sul governo israeliano. Non farlo renderebbe poco credibile la sua voce.

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