06.09.2024
Insegnare a costruire relazioni per promuovere la cultura dell’antimafia.
Ci sono alcuni contesti siciliani in cui la mafia ha lasciato un segno più profondo, prima di tutto sulle persone, sui giovani. La psicoterapeuta Grazia Zizzo lavora da oltre vent’anni con i giovani in questi contesti, e realizza con le scuole progetti di prevenzione e sensibilizzazione alla legalità.
Come lavora con le scuole per promuovere la legalità?
«Lavorare in contesto psicoterapeutico vuol dire fare anche prevenzione, e per me significa soprattutto lavorare nelle scuole, un ambiente che a me ha sempre appassionato. Quando ancora non si parlava degli sportelli d’ascolto, io avevo intuito che dare ai ragazzi uno spazio nelle scuole avrebbe permesso di fare emergere situazioni d’aiuto che altrimenti non sarebbero emerse. Per farmi conoscere, allora, ho iniziato a promuovere dei progetti sulla legalità, che ritengo particolari, perché puntavano, in primo luogo, a migliorare le relazioni, in un mondo, quello di oggi, in cui le relazioni sono sempre più labili e superficiali. E credo che il deterioramento delle relazioni tra i giovani nei nostri contesti locali sia dettato anche dalla presenza della mafia e da un atteggiamento di “mafiosità”».
Mi racconti di uno di questi progetti.
«Ho ideato un progetto di promozione del patrimonio storico-artistico della città di Castelvetrano, patrimonio che molti giovani non conoscevano. Ho maturato la convinzione che il fatto che non fossero capaci di vedere il bello della città avesse a che fare con l’avere un’immagine negativa della città stessa. L’obiettivo del progetto è stato far riscoprire la bellezza storico-artistica ai ragazzi e usare questa riscoperta sia come antidoto al senso di rifiuto nei confronti della città, sia come strumento per coltivare un senso di appartenenza. Crescere con apatia e distacco verso la città vuol dire non sentire di appartenere alla comunità e al patrimonio e maturare una sorta di rassegnazione. C’entra questo con la lotta alla mafia? Si, perché si realizza un circuito virtuoso, nel momento in cui un giovane si sente parte di una comunità, se ne prende cura e crede di poter fare qualcosa in positivo. Ho realizzato un altro progetto a cui tengo molto che riguarda la sensibilizzazione alle emozioni: durante alcuni incontri di gruppo a scuola, ognuno era invitato a raccontare un proprio sogno. Serviva per ricostruire le relazioni, per far emergere l’emotività e le cose più personali e significative».
A proposito di educazione sentimentale, cosa crede possa fare la scuola?
«Il punto è un altro. Quando se ne parla, mi chiedo cosa intenda davvero per “educazione sentimentale” chi promuove queste iniziative. Perché fare una lezione sui sentimenti non basta, bisogna creare delle situazioni in cui, toccando determinate corde, si è capaci di abbattere il muro di silenzio che si è creato e che non permette più ai giovani di conoscersi. C’è una difficoltà a comunicare davvero preoccupante».
Lei parla di mafia con gli studenti con cui lavora?
«Certo. Nelle scuole in cui sono stata, ci sono ragazzini, figli di famiglie mafiose, e uno dei miei intenti è lavorare, con gli insegnanti, sull’inclusione: cercare di integrarli quanto più possibile nel contesto classe e aiutarli a rivolgersi allo sportello d’ascolto, quando si trovano in un momento difficile. Perché quanto più questi ragazzi provenienti da famiglie mafiose si mescolano con la vita normale dei loro coetanei, tanto più sentono l’esigenza di allontanarsi dalla loro appartenenza. Anche questa è lotta alla mafia, perché si spezza una catena generazionale e questo oggi è possibile, un tempo no».