Ogni secondo nel mondo l’equivalente di un camion pieno di vestiti viene gettato via, bruciato o disperso nell’ambiente. E gran parte di questi rifiuti tessili finisce in Africa, trasformata nel capolinea globale della fast fashion. A denunciarlo è il nuovo rapporto di Greenpeace Africa, Draped in Injustice, che rivela il volto nascosto del commercio di abiti di seconda mano: dietro la “solidarietà” dell’Occidente si nasconde in realtà un flusso tossico di scarti tessili.
Secondo il report, ogni anno vengono prodotti circa 83 milioni di tonnellate di rifiuti tessili a livello globale. Il 65% è composto da fibre sintetiche derivate dal petrolio, responsabili della dispersione di microplastiche e di un impatto ambientale devastante. Una quota crescente finisce nei Paesi africani: nel 2019 il 46% dell’export tessile dell’Unione Europea ha avuto come destinazione l’Africa, ma almeno la metà dei capi spediti era invendibile, rovinata o inutilizzabile.
I più colpiti
Tra i Paesi più colpiti spiccano Kenya, Ghana, Angola, Tunisia, Repubblica Democratica del Congo e Benin, che nel solo 2022 hanno importato quasi 900 mila tonnellate di abiti usati. In Kenya, nel 2021, sono arrivati circa 900 milioni di capi – principalmente da Europa e Regno Unito – ma il 50% è finito direttamente nelle discariche, bruciato all’aperto o nei corsi d’acqua. A Nairobi, il fiume che attraversa la capitale è ormai diventato un canale tessile a cielo aperto. E in Uganda, si stima che ogni giorno 48 tonnellate di indumenti importati si trasformino in rifiuti.
Il Ghana, secondo Greenpeace, è l’emblema del collasso ambientale: ogni settimana arrivano circa 15 milioni di abiti di seconda mano nei mercati come Kantamanto, uno dei più grandi dell’Africa occidentale. Ma quasi la metà dei capi è invendibile e finisce abbandonata nelle discariche abusive.
Un’inchiesta congiunta di Greenpeace Africa e Unearthed ha documentato enormi cumuli di vestiti sintetici provenienti dal Regno Unito e dall’Europa in una zona umida vicino ad Accra, tutelata dalla Convenzione di Ramsar e habitat per specie protette come le tartarughe marine. Sulle rive del fiume Densu, i reporter hanno trovato abiti firmati M&S, Zara, H&M e Primark, inquinanti e non biodegradabili, che compromettono gli ecosistemi acquatici e marini.
L’impatto sanitario
L’impatto non è solo ambientale, ma anche sanitario. In molte discariche tessili si sprigionano fumi tossici per la combustione di fibre sintetiche. L’aria è satura di sostanze nocive, come benzene e idrocarburi, e l’acqua contaminata penetra nei terreni agricoli e nelle falde. Le popolazioni locali denunciano un’impennata di malattie respiratorie e infezioni cutanee, mentre reti da pesca, fiumi e spiagge vengono soffocati dai rifiuti della moda.
“La situazione è fuori controllo – spiega Chiara Campione, responsabile di Greenpeace Italia – e riflette un modello produttivo insostenibile. La fast fashion e ora anche l’ultra fast fashion alimentano un flusso continuo di abiti usa e getta progettati per durare poche settimane. Serve un cambio di rotta radicale, non solo sul riciclo ma anche sulle politiche di produzione, distribuzione e consumo”.
Il 10% delle emissioni serra
Secondo Greenpeace, la moda è responsabile fino al 10% delle emissioni globali di gas serra. A peggiorare il quadro, ci sono le oltre 3.000 sostanze chimiche utilizzate nella produzione tessile, di cui almeno 250 classificate come pericolose. E quando gli abiti non possono più essere venduti, finiscono nelle discariche illegali, negli scarichi urbani o nei fiumi, trasformandosi in bombe ecologiche a tempo.
Intanto, l’industria dell’usato si è trasformata in un mercato multimilionario: solo in Ghana vale oltre 200 milioni di dollari l’anno. Una dipendenza economica che ostacola leggi più restrittive, lasciando le comunità locali sole ad affrontare le conseguenze ambientali.
Greenpeace chiede ora politiche più ambiziose: un trattato internazionale che regoli il commercio di abiti usati, il divieto di esportazione di rifiuti tessili, l’introduzione di sistemi di responsabilità estesa del produttore (EPR) e un impegno serio per ridurre la produzione di capi a basso costo. Ma anche i consumatori possono fare la loro parte: acquistare meno, meglio, e sostenere la moda sostenibile.