In economia non ci sono pasti gratis. Tutto ha un costo. E così nella scienza climatica. Se si cercano scorciatoie, questo ha un prezzo che può essere molto alto. Sia perché la scorciatoia non è una vera soluzione, sia perché rischia di innescare a sua volta effetti negativi. Parliamo della geoingegneria, un insieme di tecniche di modificazione ambientale per far fronte al cambiamento climatico che sono molto care a chi – produttori e grandi utilizzatori di fonti fossili in primis – vuole evitare la mitigazione, cioè il taglio delle emissioni di gas serra.
Le tecniche di geoingegneria si dividono in due categorie. La prima è la modifica della radiazione solare (SRM). Queste tecniche, note anche come geoingegneria solare, cercano di contrastare i sintomi del cambiamento climatico riflettendo la luce solare lontano dalla Terra o restituendo più calore nello spazio. Alcune idee includono l’installazione di specchi giganti in orbita attorno alla Terra, l’irrorazione di aerosol di solfato nella stratosfera e la modifica di nuvole, piante e ghiaccio per renderli più riflettenti.
La seconda categoria è la rimozione dell’anidride carbonica (CDR), una tecnica che mira a rimuovere il carbonio dall’atmosfera su larga scala utilizzando metodi biologici e meccanici. Tra le proposte ci sono la combustione della biomassa con cattura del carbonio rilasciato, la semina di ferro negli oceani per favorire la proliferazione di plancton, oltre alle tecniche “tradizionali” di cattura della Co2 e stoccaggio profondo in depositi geologico oppure in alto mare.
Dispersione di ferro
Una delle tecniche di rimozione della CO2 legate ai mari è la fertilizzazione degli oceani (OF), che attua con la dispersione di ferro (come solfato di ferro in polvere) o di altri nutrienti (ad esempio urea) nell’oceano in aree a bassa produttività biologica per stimolare la crescita del fitoplancton. L’obiettivo teorico è quello di “estrarre” anidride carbonica dall’atmosfera durante la crescita del fitoplancton e, quando questo muore e cade sul fondo dell’oceano, il carbonio verrebbe sequestrato per lunghi periodi di tempo.
Negli ultimi 30 anni sono stati condotti almeno 16 esperimenti di fertilizzazione in mare aperto, che non sono riusciti a dimostrare che l’OF è una strategia efficace di rimozione del carbonio. Alcuni scienziati sottolineano che questa tecnica potrebbe creare “zone morte” deossigenate e impoverire i nutrienti che alimenterebbero la crescita del fitoplancton in altre aree. Gli studi condotti finora mostrano come le comunità di fitoplancton diventino rapidamente dominate dal fitoplancton diatomico più grande, il che è molto preoccupante dal punto di vista ecologico, poiché le specie di fitoplancton costituiscono la base della rete alimentare marina.
Effetti di retroazione
Qualsiasi cambiamento nella comunità di fitoplancton avrà un impatto sconosciuto, imprevedibile e potenzialmente molto dannoso sulla rete alimentare degli ecosistemi marini. Gli esperimenti hanno dimostrato che la fertilizzazione degli oceani rilascia una serie di gas a effetto serra che, su larga scala, potrebbero innescare effetti di retroazione positivi sul clima globale. Ad esempio, studi di modellazione prevedono che gli eventuali benefici del sequestro di carbonio attraverso la fertilizzazione del ferro su larga scala potrebbero essere superati dalla produzione di protossido di azoto e metano, gas serra molto più potenti dell’anidride carbonica. Questi sono alcuni dei motivi per cui l’ONU, la Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD) e la Convenzione di Londra sulla Prevenzione dell’Inquinamento Marino hanno adottato decisioni per regolamentare rigorosamente le attività di OF, che costituiscono di fatto un divieto di ogni forma di utilizzo commerciale.
Altra metodologia di sequestro della CO2 legata agli oceani è quella dell’Ocean Alkalinity Enhancement (OAE), consiste nell’aumentare l’alcalinità dell’acqua marina nell’oceano aperto, nelle zone costiere e in prossimità delle coste, per consentire agli oceani di assorbire più anidride carbonica dall’atmosfera, dove si lega chimicamente. Gli approcci OAE includono l’aggiunta di minerali alcalini macinati (calcare, olivina, magnesite o brucite) all’acqua di mare o sulle spiagge, nonché una serie di processi elettrochimici e fotochimici che rimuovono l’anidride carbonica dall’acqua di mare.
Un primo esperimento
E ci sono aziende che ci credono. Nel 2022, Planetary Technologies ha condotto un primo esperimento di OAE nella baia di St. Ives, nel Regno Unito, in cui l’idrossido di magnesio è stato aggiunto sotto forma di fanghi alle acque reflue scaricate da un impianto di trattamento delle acque reflue, il che ha provocato vigorose proteste da parte delle comunità locali. Un secondo esperimento su scala più ampia nella baia di St. Ives è stato rinviato a causa dell’opposizione incontrata.
Nel 2023, Planetary Technologies ha avviato un esperimento pluriennale di OAE nell’area portuale di Halifax, in Canada, e nel 2024 ha annunciato un primo esperimento al largo di Vancouver. Nel 2025, Planetary Technologies condurrà anche esperimenti di OAE nelle acque costiere al largo di Norfolk, in Virginia, aggiungendo sostanze alcaline alle acque reflue trattate alla foce del fiume Elizabeth nella Baia di Chesapeake. L’azienda californiana Vesta (ex Project Vesta), fondata dall’imprenditore Eric Matzner, sta testando l’EW con rocce ricche di olivina sulle spiagge. Nel 2022, Vesta ha sparso 650 tonnellate di olivina su un tratto di spiaggia di 400 metri a nord di Southampton, a Long Island, nella parte orientale dello stato di New York. Sempre Vesta ha avviato un progetto nella repubblica Dominicana e ha chiesto autorizzazioni per altri due negli Stati Uniti. Vi è molta incertezza sull’efficacia di questa tecnica, sull’impatto sulla vita marina e sui suoi costi (teoricamente molto bassi).
L’Organizzazione marittima internazionale (IMO) afferma che le tecnologie di geoingegneria marina, compresa l’OAE, “hanno il potenziale di causare effetti deleteri diffusi, di lunga durata o gravi” e sottolinea che “vi è una notevole incertezza riguardo agli effetti sull’ambiente marino, sulla salute umana e sugli altri usi dell’oceano”.
L’upwelling
Terzo sistema per il sequestro del carbonio dagli oceani è quello dell’’”artificial upwelling”, una tecnologia teorica di rimozione dell’anidride carbonica (CDR) marina che mira a trasportare artificialmente in superficie acqua oceanica profonda (DOW) ricca di nutrienti per stimolare la crescita del fitoplancton. Alcuni ricercatori ipotizzano che la crescita di nuovo fitoplancton assorbirà l’anidride carbonica atmosferica e che il carbonio sarà immagazzinato in tempi significativi quando la biomassa di fitoplancton morto affonderà sul fondo dell’oceano. L’upwelling artificiale è tutt’altro che provato e potrebbe rappresentare una minaccia per la pesca, i cicli ecologici e il clima.
Un team internazionale di scienziati di Kiel, in Germania, ha modellato gli effetti dell’upwelling artificiale su scala globale e ha stabilito che: “questo metodo ha […] un potenziale di sequestro molto limitato e un rischio di effetti collaterali sostanziali”. Anche il Gruppo congiunto di esperti sugli aspetti scientifici della protezione dell’ambiente marino (GESAMP), un organismo di consulenza delle Nazioni Unite, ha confermato che i benefici dell’upwelling artificiale sarebbero limitati e che gli studi sul campo condotti finora non hanno fornito prove della possibilità di sequestrare il carbonio su scala più ampia.
E si ritorna daccapo. La geoingegneria è spesso inefficace, se non con effetti collaterali dannosi. La strada migliore resta quella maestra. Mitigare le emissioni, riducendole in maniera sostanziale attraverso una decarbonizzazione dell’economia. Quella transizione energetica che avanza in maniera inesorabile nonostante sia osteggiata da potenti forze economiche e dall’ideologia antiambientalista.