Mentre gli attacchi dell’Idf alle infrastrutture civili della Striscia di Gaza continuano a far salire il bilancio dei morti e a incrinare l’immagine di Israele nel mondo, altre due crisi si consumano. La prima è quella alimentare, con una popolazione di due milioni di persone ridotta alla fame dalle bombe e dal lungo e sistematico blocco degli aiuti umanitari imposto dal governo di Tel Aviv.
Su questo aspetto, in occasione della festa del 2 giugno, ci sono state le parole molto chiare del presidente della Repubblica: “S’impone subito il cessate il fuoco a Gaza. È disumano che venga ridotta alla fame un’intera popolazione, dai bambini agli anziani: l’esercito israeliano renda accessibili i territori della Striscia all’azione degli organismi internazionali per la ripresa di piena assistenza umanitaria alle persone”. Sergio Mattarella ha aggiunto che “i palestinesi hanno diritto al loro focolare entro confini certi”, che Israele non può rifiutarsi “di applicare le norme del diritto umanitario ai cittadini di Gaza”. E infine che “è grave l’erosione di territori attribuiti alla Autorità Nazionale Palestinese”.
La seconda crisi è quasi invisibile ma ha tempi lunghi e, anche questa, ci riguarda tutti: è quella climatica che si inserisce all’interno della crisi ambientale https://ultimabozza.it/ecocidio-a-gaza/ . Secondo una recente analisi pubblicata dal Social Science Research Network e concessa in esclusiva al Guardian, nei primi 15 mesi del conflitto sono state generate circa 1,9 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente.
Le emissioni legate alla guerra derivano da varie fonti: i bombardamenti aerei, gli spostamenti delle truppe, i veicoli blindati, i droni, le navi militari. A questi si aggiungono le forniture belliche, in particolare quelle provenienti dagli Stati Uniti. Solo il trasporto di 50.000 tonnellate di armamenti e aiuti militari verso Israele ha generato, secondo i ricercatori, quasi un terzo delle emissioni totali.
La quasi totalità delle emissioni prodotte – il 99% – è attribuita alle operazioni israeliane. Hamas, sebbene responsabile dell’innesco del conflitto, ha inciso per una quota minima, lo 0,2%, essenzialmente per l’uso di razzi e infrastrutture militari di fortuna.
Quando e se le armi taceranno, un’altra montagna di emissioni arriverà con la ricostruzione. Gaza è oggi un ammasso di macerie. Case, scuole, ospedali, acquedotti, fognature: tutto è stato raso al suolo o gravemente danneggiato. Gli esperti stimano che rimuovere le macerie, trasportarle, produrre nuovi materiali da costruzione e ricostruire gli edifici possa generare fino a 31 milioni di tonnellate di CO₂, una cifra superiore alle emissioni annuali dell’Afghanistan o dello Zimbabwe.
Intanto il disastro ambientale continua a peggiorare. Con l’acqua potabile agli sgoccioli e gli impianti fognari distrutti, ogni giorno circa 130.000 metri cubi di acque reflue finiscono nel Mediterraneo, inquinando il mare e rendendo invivibile l’ambiente.
Mentre l’eco delle bombe non smette di risuonare a Gaza, anche all’interno di Israele il clima è sempre più teso. Le proteste contro il governo Netanyahu, già iniziate prima del conflitto per la riforma della giustizia, si sono riaccese con nuova forza. Una parte crescente della popolazione contesta la gestione della guerra, il mancato accordo per il rilascio degli ostaggi e l’isolamento diplomatico che Israele sta subendo. In Europa, la Spagna ha riconosciuto lo Stato di Palestina, seguita da Irlanda e Norvegia, probabilmente altri Paesi seguiranno. Mentre l’opinione pubblica si sposta sempre più verso una critica esplicita all’azione israeliana.