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Politica

“Generazione Nordio”, le ragioni del “SI” e del “NO”

30.08.2023

Nei giorni scorsi si è improvvisamente riaccesa la discussione sulla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, idea sostenuta dal Ministro Nordio e dalle camere penali dell’avvocatura e storicamente avversata dalla magistratura associata. Per dare ulteriore rilancio al “no” alla separazione delle carriere, il Corriere della Sera nei giorni scorsi ha rilanciato una operazione nostalgia pubblicando in prima pagina un appello firmato da circa 500 magistrati in pensione definendoli come appartenenti alla “generazione Nordio”.

«Siamo magistrati in pensione civilisti e penalisti, giudici e pubblici ministeri, che sentono il bisogno di intervenire contro lannunciata riforma della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri»

è l’incipit dell’appello nel quale il vero timore è il controllo politico sull’azione del pubblico ministero e il conseguente assoggettamento al potere esecutivo.

Questo è un timore fondato oppure un argomento che ciclicamente viene richiamato per bloccare qualsiasi ipotesi di riforma? Per dare una risposta a questa domanda è necessario osservare, in primo luogo, che nella odierna realtà giudiziaria le carriere tra pubblico ministero e giudice di fatto sono già separate perché, a seguito delle riforme Castelli e Cartabia, i passaggi da una funzione all’altra sono sempre più rari complice la progressione in carriera che impone una spiccata specializzazione delle funzioni.

In secondo luogo, sono sempre più rari i casi in cui il pubblico ministero sia portato a cercare prove favorevoli all’imputato soprattutto quando nello svolgimento delle indagini preliminari, all’accertamento della verità si sovrappone un appiattimento del pubblico ministero sulle informative della polizia giudiziaria vero motore dell’indagine soprattutto quando vengono trasfuse, nella loro totalità, dapprima nelle richieste di misura cautelare, poi nelle ordinanze cautelari emesse dai giudici per le indagini preliminari e da ultimo nelle sentenze emesse dei giudici, compresi quelli della impugnazione.

Allora, anziché temere un controllo politico sull’azione del pubblico ministero rievocando l’illustre opinione di magistrati in pensione, non sarebbe più coerente ridisegnare il ruolo dell’accusa distinguendolo da quello del giudice e riportandolo su un piano di parità rispetto a quello della difesa? Questo, non sarebbe più coerente con il dettato costituzionale che impone di garantire il diritto di difesa in ogni fase del processo?

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