Le due torri di raffreddamento della centrale nucleare di Gundremmingen, in Baviera, sono crollate sabato mattina in un boato di cemento e polvere. Seicento chili di esplosivo hanno chiuso per sempre un capitolo iniziato sessant’anni fa, quando la Germania credeva nel nucleare come chiave della modernità. Oggi, quel crollo controllato non è solo la demolizione di un impianto: è il simbolo di una transizione energetica portata avanti con determinazione, talvolta contestata, ma ormai irreversibile.
Dal boom atomico al ripensamento post-Fukushima
La centrale di Gundremmingen, affacciata sul Danubio, era una delle più grandi d’Europa. Gestita da Rwe e PreussenElektra, aveva prodotto elettricità per milioni di famiglie fino al 2021, quando l’ultimo reattore è stato spento in base al piano di uscita dal nucleare approvato dopo il disastro di Fukushima nel 2011. Fu in quel momento che la cancelliera Angela Merkel – fisica di formazione e inizialmente favorevole all’atomo – decise di cambiare rotta: entro il 2022, disse allora, la Germania avrebbe spento tutti i suoi reattori.
Una decisione che suscitò stupore e critiche, ma che si è trasformata in uno dei pilastri della politica energetica tedesca. Nel giro di poco più di un decennio, il Paese ha progressivamente dismesso 17 centrali, sostituendole con un’espansione senza precedenti di eolico e fotovoltaico. La “Energiewende”, la grande svolta energetica tedesca, è diventata il manifesto di una nuova visione: abbandonare le fonti rischiose e centralizzate per costruire un sistema basato su rinnovabili diffuse, efficienza e partecipazione dei cittadini.
Il peso del simbolo
Le immagini del crollo di Gundremmingen – le torri che si piegano come giganti esausti e la nube che si alza verso il cielo autunnale – hanno colpito profondamente l’opinione pubblica tedesca. Non è solo la fine fisica di un impianto, ma la rappresentazione concreta di una scelta collettiva. La Germania, che negli anni Ottanta era stata teatro di forti proteste antinucleari, dal movimento di Brokdorf fino a Gorleben, chiude così un cerchio: quello di un Paese che ha deciso di misurare il progresso non più in megawatt nucleari, ma in gigawatt di rinnovabili installate.
Oggi, più della metà dell’elettricità tedesca proviene da fonti pulite, e il governo punta a superare l’80% entro il 2030. Proprio sul sito di Gundremmingen nascerà un grande parco solare, con batterie di accumulo per stabilizzare la rete. È la metafora perfetta di una trasformazione in corso: dove una volta c’erano barre di uranio, ci saranno pannelli e inverter.
La lunga coda della dismissione
Ma la chiusura non significa “fine dei problemi”. Lo smantellamento di un impianto nucleare è un processo complesso che durerà decenni: le strutture devono essere bonificate, i rifiuti radioattivi messi in sicurezza e il combustibile esausto trasferito in depositi temporanei. Per Gundremmingen, la bonifica completa è prevista intorno al 2046. È la parte meno visibile, ma più delicata, della transizione: quella che richiede rigore tecnico, risorse e trasparenza.
Una lezione anche per l’Italia
Per l’Italia, che ha detto addio al nucleare già nel 1987 con il referendum seguito al disastro di Chernobyl, la Germania rappresenta una sorta di esperimento in tempo reale: un grande Paese industriale che ha scelto di basare la sua sicurezza energetica non sull’atomo, ma sulle rinnovabili e sulla cooperazione europea. Il percorso non è privo di contraddizioni – l’aumento temporaneo dell’uso del carbone e del gas durante la crisi energetica del 2022 lo ha dimostrato – ma la direzione resta chiara.
Il crollo delle torri di Gundremmingen è la rappresentazione plastica di un passaggio d’epoca: la Germania archivia l’era nucleare e investe sul sole e sul vento come nuovi pilastri della sua sovranità energetica.
