27.03.2024
Gesù immaginato da Pasolini
Per lui, Matera non aveva bisogno di fingere, “era” Gerusalemme; la morte di Gesù Cristo era un quid profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo. Questo era il “Vangelo secondo Matteo”.
Pier Paolo Pasolini. Quella sua vita così estrema, atea ma intrisa di religiosità, non poteva che essere ispirata dall’unico testo sacro fondante: il Vangelo. L’incontro con la figura di Gesù non fu un miracolo casuale, ma frutto di un’eccitazione febbrile per rappresentare, al di là di ogni corriva beatitudine, un Cristo dalle fattezze umane che attraverso i passi di Matteo, l’evangelista, veicolasse il carattere “rivoluzionario” sociale del messaggio cristiano. «La bellezza morale, non mediata – da poesia, filosofia, pratica – ma immediata, allo stato puro, l’ho sperimentata solo lì», scriveva. Poi, quando (1964), dopo aver girato invano in posti distanti all’estero, si trovò nel groviglio inestricabile di scale, terrazzi, camminamenti, grotte, lungo i muri sbrecciati di una realtà abitativa unica perché preistorica, percepì che solo a Matera, con quel senso di desolazione e nudità povera, il (suo) Vangelo avrebbe potuto trovare un luogo ossimoro, estraneo al tempo, quasi metafisico, capace di ricreare il fascino surreale di Gerusalemme.
Per lui Matera non aveva bisogno di fingere: “era” Gerusalemme! Con i Sassi e quell’imprevedibile forza vitale che promana da questo gigantesco girone dantesco sprofondato in verticale nel tufo, chiamati a diventare non solo elemento scenografico, ma essi stessi spettatori della vicenda di Cristo. Nel massimo rispetto del percorso evangelico, Pasolini scrisse la sceneggiatura in collaborazione con la Pro Civitate Christiana, rinunciando a demistificare il mistero insondabile della morte, “un quid profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo”. La macchina da presa si incollò sulle facce e riuscì ad indagare i volti anonimi di attori non professionisti, con stile scarno, arido. Sulla scia musicale di Mozart, Bach, Webern e Prokofiev, frammista a canti popolari della tradizione, viene proposto un Gesù né rassegnato, né ieratico, ma povero, duro, proletario, interprete di istanze sociali durante la predicazione, che prese le fattezze di uno studente catalano, Enrique Irazoqui, bruno, dai lineamenti arabeggianti per sostituire il canonico Cristo filiforme, dall’avvenenza candida e dai capelli fluenti.
Divamparono polemiche a cominciare dall’impiego di una schiera di intellettuali tra i protagonisti e i comprimari: Alfonso Gatto nei panni di Andrea, Natalia Ginzburg come Maria di Betania, Giorgio Agamben interprete di Filippo, Enzo Siciliano, Simone, e la stessa mamma Susanna Pasolini nel ruolo della Madonna. La critica pasoliniana, virulenta, alla falsità del potere, la condizione della povertà, i rimandi al Terzo Mondo, innescarono contestazioni da parte d’un gruppuscolo misto di cattolici e neofascisti (con un lancio nutrito di uova marce) alla Mostra cinematografica di Venezia. Indulgenti furono solo i commenti di Alberto Moravia che lodò (sull’Espresso) gli straordinari primi piani, quelli dell’Unità che lo definì “il più bel film su Cristo mai fatto, e il più sincero”, anche se per il Corriere della Sera gli era “sfuggito il senso del mistero”, e per l’Osservatore Romano risultava “fedele al racconto, non all’ispirazione del Vangelo”. A distanza di tempo rimane intatto un universo di “segni” che ingloba e rinvia ad una realtà nascosta, capace di schiudersi soltanto alla fede, ed il taglio poetico di un’opera permeata di persuasiva voglia di giustizia. Nessun altro luogo visto da un poeta scomodo, credo, possa parlarci così e dialogare con il nostro io profondo. Ecco, Matera proteiforme come Pasolini e i fotogrammi del suo “Vangelo” a fissare la sofferenza, è tutto questo e altro ancora.
Credito fotografico: Domenico Notarangelo.