15 Gennaio 2025
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Esteri

Hamas, nemico indiretto del proprio popolo

16.10.2023

Membri delle Brigate Al-Qassam, schierati nelle strade, durante il 35° anniversario della fondazione del movimento palestinese Hamas, a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.

Israele non potrà che rispondere agli attacchi terroristici subiti il 7 ottobre. Hamas lo sa benissimo; vuole la reazione israeliana e vuole le vittime da entrambe le parti per accendere le piazze arabe e continuare il suo ambizioso progetto, quello di creare uno stato palestinese islamico filoiraniano in Terra Santa.

La battaglia di Gaza sarà lunga, difficile e sanguinosa, anche per colpa di Hamas e della sua instancabile ricerca di vittime palestinesi per alimentare l’odio ideologico contro Israele, gli ebrei e l’Occidente. Mentre il mondo attende con il fiato sospeso che i primi carri armati entrino nella striscia di Gaza, è bene ricordare che ciò accade solo in risposta all’incursione terroristica del 7 ottobre scorso. Di fronte al massacro e alla presa di ostaggi, i cui numeri continuano peraltro a salire, Israele non può non reagire, perché rinunciare significherebbe dire al mondo, soprattutto alla variegata galassia islamista, che si può sfidare lo stato ebraico e massacrare ebrei impunemente.

È per questo che, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, Israele non ha altra scelta che attaccare. Di fronte alla più grande uccisione di ebrei dalla Seconda guerra mondiale, lo Stato ebraico non può soppesare la risposta con il bilancino. Per quanto consapevole della strumentalizzazione che i suoi avversari ne faranno, Israele non può lasciare che Gaza sia il trampolino per altri sanguinosi attacchi.

Se Tsahal, l’esercito di Israele, è obbligato a entrare nella striscia per stanare i vertici di Hamas e liberare gli ostaggi, lo farà con una riluttanza superata solo dal dolore per la strage. Da Stalingrado a Bakhmut, da Cassino a Mosul, nessun esercito ama combattere in città, dove ogni edificio diventa una fortezza e l’attaccante allo scoperto è dieci volte più vulnerabile del difensore all’interno. La mobilitazione delle forze terrestri, gli attacchi aerei preparatori, gli inviti ad evacuare sono stati altrettanti segnali pressanti per dare a Hamas e ai suoi sponsor politici che ci sarebbe spazio per una trattativa.

Il rilascio degli ostaggi sarebbe stata una confidence-building measure, che avrebbe tra l’altro reso più difficile a Israele giustificare un attacco su vasta scala, anche grazie a chi, in Occidente, non avrebbe mancato di sottolineare le cifre diffuse da Hamas sulle vittime degli attacchi aerei. Invece, come diceva Abba Eban, «i palestinesi non perdono mai l’occasione di perdere l’occasione».

La responsabilità dell’attacco e delle sue vittime, palestinesi e israeliane, cade quindi su Hamas e sulla sua politica di innalzare lo scontro per renderlo irreversibile. Da questo punto di vista, non importa che i gazawi sostengano i terroristi o ne siano vittime, ma solo che Hamas considera tutti, sostenitori e oppositori, come carne da cannone. Lanciare i razzi dalle loro case (attirandovi, va da sé, la risposta di Israele) e scoraggiare l’evacuazione di Gaza Nord (fino ad attaccare i profughi, dandone la colpa al nemico) sono responsabilità pesanti, che aumentano cinicamente il numero di vittime, al solo scopo di rinsaldare la posizione politica di Hamas nei riguardi di Al Fatah e Hezbollah. Il combattimento urbano farà il resto.

È bene rifletterci prima che l’attacco inizi e l’emozione prenda il sopravvento, aiutata dall’antisemitismo mascherato da antisionismo e dalle anime belle della diplomazia a ogni costo. I morti di Gaza, soprattutto palestinesi, sono responsabilità di Hamas.

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