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“Hate Speech” e “Haters”, la fonte dell’odio in rete

27.09.2023

Molti di noi sono “haters” senza saperlo. La definizione stessa del “Hate Speech” risulta ancora incompleta e dispersiva. L’odio può essere interpretato da diversi punti di vista. L’intervista al professore di Linguistica e Italian Studies presso l’Università di Reading in Gran Bretagna, Federico Faloppa.

Hate Speech o il “linguaggio dell’odio” è importante sapere che, quando se ne parla non si fa riferimento ad una categoria specifica, i cosiddetti odiatori o haters, ma che questo argomento può riguardare ognuno di noi. Che ci sia, cioè, un odio quotidiano che deriva anche da un’inconsapevolezza del linguaggio che stiamo utilizzando, ecco la chiave…il linguaggio.
Abbiamo intervistato a questo proposito Federico Faloppa professore di Linguistica e Italian Studies presso l’Università di Reading, in Gran Bretagna.

Che cosa si intende per Hate speech?

Non è facile trovare una definizione del “Hate Speech” che sia universalmente accettata, infatti, ce ne sono diverse a seconda della disciplina e del punto di vista, quella più accreditata è quella fornita dal Consiglio d’Europa nelle su raccomandazioni del 2022.

«Per Hate Speech si intendono tutte le espressioni che diffamano, incitano all’odio, denigrano, discriminano, una persona o un gruppo di persone sulla base di caratteristiche reali o presunte per motivi di razza, sesso, identità di genere, abilismo, nazionalità, etc». Questa definizione molto sintetica può essere utilizzata in modo operativo, però come tutte le definizioni presenta alcuni problemi, il primo è che in tutte quelle espressioni che denigrano, discriminano e incitano all’odio ci può stare di tutto, quindi possiamo trovare delle ingiurie, delle minacce o delle espressioni diffamanti, sul piano linguistico sono materiale molto composito, ma anche dal punto d vista legale alcune di queste espressioni hanno rilevanza penale mentre altre no.

Come anche gli stereotipi negativi, che non hanno appunto rilevanza a livello penale. Certamente una definizione come questa dà per scontato che noi sappiamo che cosa sia il linguaggio dell’odio, e non sempre è così. L’odio può essere definito da diversi punti di vista, psicologico, analitico, sociologico. Può essere una predisposizione individuale legata a psicopatologie, a comportamenti collettivi, a dei risvolti antropologici e sociali che riguardano l’essere umano nella sua collettività. È un discorso molto complesso e quindi questa definizione non lo può sciogliere. Abbiamo, poi i problemi legati ai motivi per cui si incita all’odio.

Questa definizione del Consiglio d’Europa come molte altre mette in evidenza i principali, quelli storicamente accertati. Durante la pandemia si è evidenziato che molti bersagli di discorsi d’odio non rientravano nelle solite categorie, pensiamo ad esempio al personale medico, paramedico, ai giornalisti soprattutto donne. Le definizioni esistono, tuttavia la materia è difficile e anche sfuggente, non si riesce a dare un’unica definizione. Sempre nelle raccomandazioni del Consiglio d’Europa si fa una distinzione tra risvolto penale che naturalmente ha più attenzione sia da parte dei media che della giurisprudenza (es. minacce, diffamazione) e un risvolto civile (es. la rispettabilità di una persona).

Spesso chi pronuncia parole d’odio non se ne rende conto. La Corte per i Diritti Umani di Strasburgo, dice che per affrontare dei discorsi d’odio bisognerebbe sempre avere un approccio circostanziale, cioè chi lo produce, quando, qual è l’Audience, quale canale viene utilizzato perché a seconda di queste variabili gli effetti possono essere molto diversi e quindi anche i risvolti sociali e penali.

Parte prima

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