Nel marzo 2025, l’amministrazione statunitense ha ufficializzato un nuovo pacchetto di dazi nei confronti dell’Unione Europea. I settori più colpiti? Dall’automotive all’acciaio, dall’alluminio alle tecnologie verdi. Una mossa, come è stata subito rilevato, che ha scosso le fondamenta delle relazioni transatlantiche e che apre scenari preoccupanti non solo sul piano commerciale, ma anche su quello ambientale.
Da canto suo, il presidente Donald Trump ha giustificato queste misure come parte di una strategia per “riequilibrare” la bilancia commerciale tra le due sponde dell’Atlantico. Ma è una giustificazione che ha lasciato perplessi molti osservatori internazionali: a fare le spese di questa decisione sono in particolare i settori che trainano la nuova economia, quella a basso impatto ambientale, che è il terreno di maggiore competizione globale.
Il colpo alle rinnovabili
Uno degli aspetti più controversi dei nuovi dazi è infatti proprio questo: finiscono per penalizzare proprio i prodotti necessari alla transizione ecologica: pannelli solari, turbine eoliche, batterie per lo stoccaggio energetico e componenti elettronici per la mobilità elettrica. Insomma, un aumento dei costi che rende questi beni meno accessibili per imprese e consumatori, rallentando progetti già in corso e scoraggiando nuovi investimenti nel settore. “È un precedente pericoloso”, afferma Andrea Geremicca, direttore generale dell’Istituto Europeo di Innovazione per la Sostenibilità.
Secondo l’esperto, la manovra degli Stati Uniti si può leggere come la prevalenza della geopolitica sulla cooperazione internazionale per vincere le sfide ambientali: “Questo cambia le carte in tavola”, prosegue. “Fino a ieri il clima era una sfida collettiva, ora rischia di diventare una guerra di standard. E l’Europa, che ha fatto del Green Deal il proprio biglietto da visita geopolitico, si trova improvvisamente disarmata in una trattativa che parla il linguaggio del dazio, non della cooperazione”. Insomma, una gara a chi controlla il pianeta nel breve periodo.
E c’è un pericolo ancora più insidioso. Che il green diventi elitario: “L’aumento dei costi per le tecnologie verdi incide esattamente dove fa più male: sull’effetto rete”, commenta Geremicca. E prosegue: “Le rinnovabili si espandono solo se passano sempre più a un’economia di scala, ma se le pale costano di più e i pannelli arrivano a singhiozzo, il sistema si deforma: aumentano i costi, rallenta la fiducia e si spostano gli investimenti. E se solo le grandi utility possono permettersi l’istallazione, la transizione perde la sua forza democratica. È come costruire internet a pagamento: funziona, sì, ma solo per chi se lo può permettere”.
Dunque, come spiega l’esperto, per evitare una battuta d’arresto della transizione ecologica, non basta osservare gli indicatori macroeconomici, ma occorre monitorare dove si spezza la catena del valore: nelle fabbriche, nel capitale umano, nei centri di ricerca e innovazione. E, se a perdere fiducia sono professionisti, scienziati e giovani talenti, allora i numeri smetteranno di crescere.
Politiche commerciali e la risposta dell’Europa
In questo complesso scenario, non si tratta di domandarsi se le politiche commerciali possano interferire con gli obiettivi climatici, perché lo stanno già facendo: “Ogni dazio, ogni barriera, ogni ritardo burocratico che colpisce le tecnologie verdi ha un equivalente in CO2” continua Geremicca. “Se un progetto eolico salta perché i materiali arrivano tardi o costano troppo, quello spazio energetico verrà riempito da combustibili fossili. Le politiche commerciali sono diventate un acceleratore o un freno alla curva climatica”.
Ma non tutto è perduto. Anche se ci troviamo di fronte a un momento delicato, l’Unione europea ha davanti a sé l’occasione per dimostrare che sostenibilità e competitività non sono alternative, ma alleate strategiche. Dice Geremicca: “A questo si riferisce il Competitiveness Compass, una bussola pensata per orientare la crescita nei settori strategici, alleando norme, fondi pubblici e investimenti privati. In altre parole, non si tratta solo di difendere un modello, ma di rafforzarlo. Investire nella transizione energetica ora significa anche rafforzare le capacità dell’Europa di scegliere il proprio futuro con regole chiare, tecnologie pulite e filiere affidabili. Tutto questo mitiga il rischio delle imprese nel lungo periodo”.
Insomma, bisogna mobilitare risorse interne. Il che, come spiega il direttore generale dell’Istituto Europeo di Innovazione per la Sostenibilità significa rivedere il territorio con occhi nuovi. Ogni edificio pubblico può diventare parte di una comunità energetica, ogni scuola un laboratorio di innovazione, ogni Comune un acceleratore di sviluppo sostenibile: “Non servono soldi, servono procedure che funzionano, persone che conoscono, patti locali. Ogni euro mobilitato deve diventare un progetto visibile, replicabile, misurabile”.
Conclude Geremicca: “L’Europa oggi ha l’opportunità di costruire nuove relazioni, non più basate sull’aiuto, ma sulla reciprocità: co-progettare tecnologie sostenibili; co-produrre energia pulita, co-certificare filiere etiche. In molte regioni dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina c’è talento, domanda e risorse naturali. Se trattate come partner, e non come fornitori, queste aree possono diventare protagoniste della transizione insieme all’Europa”.
Insomma, nuove alleanze che non nasceranno dalla forza, ma dalla fragilità condivisa. Perché clima, energia e approvvigionamenti sono sfide globali, e nessuno può affrontarle da solo.