28.12.2023
C’è un legame indissolubile tra il luogo in cui siamo nati e il nostro modo di essere. Gianfranco Jannuzzo scende in strada per catturare una piccola parte della sua realtà che chiama “Gente mia”, un omaggio antropologico alla Sicilia, e non solo.
Nell’epoca della dimensione virtuale priva di qualsiasi trasalimento legato all’emozione della scoperta, può destare sorpresa che un attore affermato scenda in strada. Ma per Gianfranco Jannuzzo è naturale, perché sa quanto sia imprescindibile l’abitare uno spazio d’immagini, suoni, percezioni sottili. E se le parole del “suo” teatro, vissuto come passione incoercibile, quelle che elevano, ispirano, vitali sul palco sembrano appassire fuori, nel deserto del rumore, ecco che l’amata fotografia si propone come passepartout.
Dopo anni passati a scoprire la scatola delle illusioni in scena e delle lezioni di vita, nel seguire le orme dei Bramieri, Proietti, Garinei & Giovannini, riaffiorano i click di un ragazzo che nelle estati degli anni ’70, lasciata Roma, gironzolava nella sua Sicilia, con la reflex, eppoi con la Leica, ma sempre con la fida ISO 400 in bianco e nero. Pronto a fissare con quell’obiettivo, custode del tempo, una varia umanità di giovani e vecchi, attraverso piccoli gesti, stupore, lungo vicoli, porte che si aprono, scale, finestre per sbirciare un angolo della terra d’origine da cui non ci può allontanare. Un mosaico che si ricompone nelle pagine di “Gente mia”, (a cura di Angelo Pitrone, per Medinova ediz. di Antonio Liotta, medico umanista), il prezioso volume che raccoglie flash vitali di un viaggio di conoscenza.
Nella Trinacria della tragedia greca e dei rovelli pirandelliani, dei contrasti ed eccessi ma pure di radiosa visionarietà, significa penetrare i silenzi di un luogo appartato, dalle identità multiple votate a trasformarsi in coesione. Come il Ciampa del “Berretto a sonagli” con la corda pazza ammansita da quella civile, nel testimoniare di realtà inaccessibili alla coscienza e difficilmente esprimibili a parole, Jannuzzo, nell’annullamento delle distanze, è lì a inquadrare il particolare (retaggio d’occhio scenico), un’intimità pudica, anche viziata da imperfezione, ma mai soverchiata da forzature. La geografia emozionale (non emotiva) diventa scavo psicologico, e se il teatro “dove tutto accade”, è qualcosa che vive del ricordo fuggente, nella fotografia sa che “non si vede qualcosa, ma si può ri-vedere qualcosa”.
Presente intrecciato a memoria con quest’ultima che si fa cemento d’identità collettiva della natìa Agrigento, Girgenti. Scatta la relazione intima con lo spazio urbano, sfilacciato, ma grondante umanità e accoglienza, generosità amicale e senso d’appartenenza. Una mappa di vita minima, ma non minimale, che con facoltà mimetica (teatrale) si apre a nuove sottigliezze percettive. Le immagini incorporee rimandano a frammenti (con quei bambini che scorrazzano festanti, e donne “nido di forza”), in un acquario immaginario fatto di silenzi, sì, ma parlanti ed evocativi. Si comprende, allora, che la sensibilità della pellicola utilizzata, nell’equilibrio tra soggetto e sfondo, con quella profondità di campo che diventa codice umano d’indagine sottile a livello esistenziale, con vite che prendono corpo e lasciano trasparire sentimenti, vada ben oltre il suo mondo fotografico e trasformino a colori un bianco e nero ricco di contrasti, sfumature, mezzi toni, ganglio vitale d’un’isola incardinata sugli opposti. Un microcosmo d’ancestrali memorie, immagini-simbolo, esaltate dall’uso variegato delle inquadrature a veicolare emozioni senza parole. «C’è una cosa che deve contenere la fotografia: l’umanità del momento», Robert Frank. E Jannuzzo l’attore, Gianfranco il fotografo, lo sa. Dalla terra dove si parla con gli sguardi.
Credito fotografico: Gianfranco Jannuzzo