3 Maggio 2025
/ 2.05.2025

Il buco dell’ozono mezzo secolo dopo: missione (quasi) compiuta

Il primo allarme è del 1974, nel 1985 la conferma dell’esistenza di un buco dell’ozono. Nel 1987 la firma del Protocollo di Montréal, l’accordo che avviò l’eliminazione dei gas che distruggono l’ozono

Era il 1974 quando due chimici, Frank Sherwood Rowland e Mario Molina, pubblicarono per primi un allarme che sembrava allora lontano e ipotetico: i clorofluorocarburi (CFC), gas allora comunemente utilizzati in spray, frigoriferi e condizionatori, stavano danneggiando lo strato di ozono. I due scienziati ipotizzarono che queste sostanze, una volta liberate nell’atmosfera, potessero raggiungere la stratosfera, dove la luce ultravioletta del Sole le scompone liberando atomi di cloro capaci di distruggere migliaia di molecole di ozono. Dieci anni dopo, nel 1985, arrivò la conferma: un team britannico del British Antarctic Survey rilevò un drammatico assottigliamento dello strato di ozono sopra l’Antartide, fenomeno che da allora venne chiamato “buco dell’ozono”. Il mondo scientifico fu costretto a riconoscere la gravità del problema, e la politica iniziò a muoversi.

Nel 1987 fu firmato il Protocollo di Montréal, un accordo internazionale che avviò la graduale eliminazione dei CFC e di altre sostanze distruttive per l’ozono. È considerato oggi uno dei più efficaci trattati ambientali mai siglati: ratificato da quasi tutti i Paesi del mondo, ha ottenuto risultati concreti. A quarant’anni dalla conferma del problema, lo strato di ozono sta mostrando segni tangibili di recupero. Secondo l’Onu, ai ritmi attuali potrebbe tornare ai livelli pre-1980 entro il 2040 in molte zone del pianeta, con tempistiche più lunghe per le aree polari.

Cosa abbiamo rischiato: gli effetti delle radiazioni UV

Lo strato di ozono agisce come uno scudo naturale, assorbendo la maggior parte delle radiazioni ultraviolette (UV) del Sole. Quando questo scudo si assottiglia, sulla superficie terrestre arrivano quantità maggiori di radiazioni nocive. Le conseguenze non sono soltanto ambientali, ma anche sanitarie, sociali ed economiche.

Effetti sulla salute umana:

  • Tumori della pelle: aumento del rischio di melanoma e di altri tumori cutanei, come il carcinoma basocellulare e squamoso.
  • Problemi oculari: maggiore incidenza di cataratta e di degenerazioni retiniche legate all’età.
  • Invecchiamento precoce della pelle: esposizione prolungata ai raggi UV accelera la formazione di rughe, macchie e perdita di elasticità.
  • Indebolimento del sistema immunitario: le radiazioni UV possono interferire con la risposta immunitaria, aumentando la vulnerabilità a infezioni.

Effetti sull’ambiente:

  • Danni agli ecosistemi marini: i raggi UV danneggiano il fitoplancton, alla base della catena alimentare oceanica e importante per l’assorbimento del carbonio.
  • Coltivazioni a rischio: le piante possono subire mutazioni e rallentamenti nella crescita, con ripercussioni sulla produzione agricola.
  • Degradazione dei materiali: l’ultravioletto accelera l’usura di plastica, gomma, tessuti e vernici, con effetti economici e ambientali.

Quello che si è rischiato, quindi, è stato un peggioramento generalizzato della salute umana, della produttività agricola, dell’equilibrio degli ecosistemi e della qualità dell’ambiente. Il buco dell’ozono è stato un segnale d’allarme globale, che ci ha costretti a ripensare l’impatto delle nostre tecnologie e abitudini.

Una storia che insegna

Il recupero dello strato di ozono è una delle storie positive nella lunga e difficile battaglia per la difesa dell’ambiente. Dimostra che la scienza può offrire risposte concrete, che la cooperazione internazionale è possibile, e che i danni al pianeta – se presi in tempo – possono essere in parte riparati. L’esperienza del Protocollo di Montréal ci insegna anche che, davanti all’evidenza scientifica, è possibile riorientare l’economia e la produzione verso soluzioni più sicure.

Oggi, mentre affrontiamo sfide come il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, la lezione dell’ozono resta attuale: serve un’azione coordinata, tempestiva e basata sui dati, prima che sia troppo tardi. Il buco nell’ozono si sta chiudendo, ma non dobbiamo abbassare la guardia. La cura ha funzionato perché ci siamo presi la responsabilità collettiva del problema. E questo rimane, forse, il messaggio più potente che questa vicenda può lasciarci.

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