20 Agosto 2025
/ 1.08.2025

Il caso controverso dei 7 koala australiani

In Australia durante un progetto di reintroduzione 7 koala su 13 hanno perso la vita: che cosa è andato storto? Era davvero un progetto necessario? Ne abbiamo parlato con Stefano Grignolio dell’Università di Ferrara

È un caso controverso quello che arriva dal Nuovo Galles del Sud, in Australia. Il governo, a inizio anno, ha dato il via a un progetto per reintrodurre i koala in una foresta del sud dello Stato, ma i risultati non sono stati quelli sperati. Sette dei tredici esemplari trasferiti sono morti, due per sospetta setticemia. Gli altri sei sono stati recuperati e riportati nel loro habitat originario.

Ma facciamo un passo indietro. Ad aprile, tredici koala sono stati prelevati da un’area ad alta densità vicino a Wollongong e trasferiti nel South East Forest National Park, nella zona di Bega, dove la specie era estinta localmente. Secondo quanto riferito dal The Guardian, tre animali sono morti entro 48 ore dal rilascio, controlli veterinari successivi hanno individuato infezioni acute e croniche a fegato e polmoni, compatibili con una setticemia. Dopo questi primi decessi, dunque, il progetto è stato sospeso, e i restanti esemplari sono stati ricoverati in un ospedale veterinario. Ma non è bastato, perché altri quattro koala non ce l’hanno fatta.

Fallimento o rischio?

L’esito disastroso del progetto, naturalmente, ha suscitato reazioni immediate, soprattutto sul fronte ambientalista: in particolare, la portavoce dei Verdi per l’ambiente del Nuovo Galles del Sud ha definito l’operazione “un fallimento catastrofico”, accusando il governo di portare avanti programmi rischiosi mentre permette la continua distruzione degli habitat dei koala per lo sviluppo edilizio e disboscamento.

Da canto suo, il Dipartimento dell’Ambiente dello Stato ha indicato una possibile correlazione tra le morti e un evento meteorologico: le piogge abbondanti dei giorni precedenti al rilascio potrebbero aver compromesso le condizioni fisiologiche dei koala, alterando il comportamento alimentare e abbassando le difese immunitarie. Dunque, si tratta di un fallimento o di un rischio in ottica di un’azione conservativa più ampia?

Stefano Grignolio, docente dell’Università di Ferrara, risponde: “Quello che si può fare è condividere qualche ragionamento sulla base delle informazioni che a disposizione. Specificando che, per formulare un’attenta valutazione scientifica, servirebbero più dati rispetto a quelli resi noti. Si potrebbero formulare due ipotesi: è successo qualcosa legato alle procedure di cattura e rilascio, e questo succede se gli animali vengono trattenuti troppo e in modo non corretto, perché in questo caso possono avere problemi a livello muscolare o simili, però non sembra questo il caso”.

 “L’altra ipotesi”, continua, “che poi è quella che avanzano, è che ci sia stato un problema a livello sanitario, legato a una serie di complicazioni. Nella fase di trasporto e rilascio nell’ambiente l’animale avrebbe contratto qualche elemento patogeno, ed essendo in una condizione di stress – questo capita a tutti gli animali selvatici che vengono catturati – il sistema immunitario sarebbe risultato più debole, o l’agente patogeno potrebbe essere stato particolarmente virulento. È un discorso da veterinari più che altro, però è un’ipotesi appropriata, ma servirebbero più dati”. Insomma, secondo l’esperto, senza una base di dati completa, parlare di “progetto mal riuscito” è più una presa di posizione politica che scientifica.

Reintroduzione: uno strumento utile ma non infallibile

Ma questi progetti sono realmente utili? Secondo Grignolio, i programmi di reintroduzione sono riconosciuti come strumenti fondamentali per la conservazione della biodiversitò a livello internazionale, anche da enti come IUNC – Unione internazionale per la conservazione della natura, ma presentano rischi concreti: “La biologia non è una scienza esatta come l’ingegneria, non possiamo pretendere che un’operazione complessa come quella di cui parliamo avvenga con margini di errori nulli”.

Inoltre, il docente sottolinea che il successo di un progetto di reintroduzione dipende da molteplici fattori: l’idoneità dell’habitat, l’assenza delle cause che avevano portato all’estinzione locale, la disponibilità di cibo, ma anche il contesto sociale: “In Europa e in Nord America si tende a reintrodurre erbivori, come cervi o caprioli, perché sono più accettati dalla popolazione. Con i carnivori, come lupi e orsi, è molto più difficile: l’accettazione sociale è una condizione imprescindibile”.

Nel caso specifico dei koala australiani, secondo Grignolio, il progetto sembra basarsi su criteri corretti, e, nel complesso, l’operazione era parte di una strategia di conservazione più ampia già in corso nello Stato. “Il problema – aggiunge – è che le condizioni ambientali straordinarie, come piogge intense, o la presenza di patogeni virulenti sono variabili imprevedibili”.

Progettualità e habitat: la chiave del successo

Un altro elemento fondamentale, secondo il docente dell’Università di Ferrara, è che le reintroduzioni non possono essere disgiunte da una reale tutela dell’habitat: “Se si rilascia una specie in un territorio dove le condizioni ecologiche sono ostili, si rischia di vanificare tutto. Serve prima rimuovere le cause che avevano portato all’estinzione locale, che spesso non sono solo la caccia o il bracconaggio, ma anche inquinamento e attività industriali”.

Prosegue: “Lo Stato australiano in questione, per esempio, mette a disposizione per questi progetti decine di milioni di euro, e questo è sintomatico. Sono scelte che devono essere supportate dal punto di vista politico: ci deve essere una valutazione anche nazionale”.

E conclude: “Per aumentare l’efficacia e far rendere meglio i fondi investiti, serve una progettualità nazionale, dei piani d’azione. In Italia ne abbiamo qualcuno, anche se sono un po’ datati: per esempio la reintroduzione dell’orso sulle Alpi, o la reintroduzione dell’orso marsicano, abbiamo il progetto per il camoscio appenninico. Se partiamo da una progettazione nazionale fatta in modo adeguato e in modo moderno possibilmente, allora nella realizzazione dei progetti la qualità è più alta”.

Insomma, questo caso rappresenta un episodio grave, ma non sufficiente a screditare un intero approccio di conservazione ambientale, quello della reintroduzione. Come ha detto lo stesso Grignolio, “questo caso ci ricorda quanto siano delicati questi progetti. Ma è proprio per questo che vanno affrontati con competenza, cautela e trasparenza”.

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