19 Settembre 2024
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Cultura

Il contributo illusivo e disperato della iperrealtà

Tutti sanno che quel prodotto è “una schifezza”, sebbene entrato nell’orizzonte dei nostri desideri, convincendoci a cooperare silenziosamente con il “sistema” che lo concepisce. Ma condurre i “cronisti” ad ammirare le grandi opere è più importante, ai fini del risultato, dell’opera stessa.

Nella vita, a volte, occorre anche saper recitare una parte. Per il quieto vivere tra persone che non si comprendono, per interessi commerciali e professionali che ci inducono a compiacere un superiore, per fidelizzare il cliente di un nostro prodotto. Persino nel coaching, metodo sempre più conosciuto di motivazione interiore per la realizzazione di obiettivi personali e professionali, il “Come se” diviene una vera tecnica, rituale, a cavallo tra le neuroscienze e il business management, utile a presentire la persona che vorremmo diventare.

Stavolta, però, nella direzione dell’eticità di quegli obiettivi, cioè in linea con i valori percepiti. Ci sono poi, come fulmini a ciel sereno, espressioni di distacco aliene e incomprensibili. Il gioielliere Gerard Ratner rimase nella storia del postmodernismo capitalista perché, nel 1991, definì pubblicamente i suoi prodotti di bigiotteria economica una schifezza totale. Una vicenda che ci aiuta a rendere visibili i collegamenti tra la sfera del pubblico e quella del privato, in contesti sociali in cui sono di moda neologismi come “iperrealtà” per definire una realtà difficile da catturare perché elusiva e in continuo divenire. C’è quella degli spettatori degli show televisivi, a metà tra la vita vera e l’illusione e quella degli autori e dei protagonisti, con le telecamere che influenzano il comportamento di chi viene filmato. Una finzione che, per alcuni, ha già contagiato la realtà, divenendo collettiva. Così, il valore simbolico del prodotto culturale, commerciale conta più delle ambivalenze insite nella prassi spicciola, contingente.

Lo “stato” ideale, elaborato a simbolo, fa sì che la realtà sociale perda effettivo valore, alla stregua di una merce di scambio da sacrificare sull’altare della recita collettiva e negoziata. Tutti sanno che quel prodotto è “una schifezza”, ma è entrato nell’orizzonte dei nostri desideri, convincendoci a cooperare silenziosamente con il “sistema” che lo concepisce. Anche se una merce può contenere corruzione e violenza strutturale, in qualche luogo del mondo, è qualche altro a essere demandato a far giustizia. Il “Grande Altro”, elaborato da Slavoj Zizek sul concetto dello psicanalista Jaques Lacan, è per il sociologo Mark Fisher proprio questo. Condurre i “cronisti” ad ammirare le grandi opere è più importante, ai fini del risultato, dell’opera stessa. Accade perché il “Grande Altro” non si può mai incontrare di persona, sono vive le sue controfigure. Si conoscono i suoi difetti, ma è il garante della nostra esistenza “reale”.

È interessante notare come i cambiamenti in atto, le tecnologie innovative e fatti di cronaca producano reazioni disparate. Opinioni non giustificate, teorie del complotto, altre manifestazioni di “interpassività” funzionali al “modello” che si pensa di criticare. Altrettanto interessante sarà comprendere come queste saranno in grado di generare frontiere interne, nell’incontro continuo tra dimensione «globale» e particolarismo “locale”.

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