14 Maggio 2024
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Spettacolo

Il dono di sentire il ridicolo dei luoghi comuni

10.01.2024

Achille Campanile è stato un punto di riferimento del “nuovo” nella letteratura e nel teatro del Novecento, e si rivela ancora attualissimo nel farci comprendere che cos’è l’ironia quando è metafora e ci racconta l’assurdo del vivere.

Stazione ferroviaria di Civitavecchia, 29 ottobre 1922. Indisturbato, perché ritenuto alto dignitario, mentre le camicie nere facevano ala, con flemma e il suo immancabile monocolo, si indirizzò verso il treno da cui stava scendendo il Duce (nella sua marcia su Roma). Sfilato il guanto: «Permette? Campanile». Non poteva essere altri che lui: l’incontenibile Achille Campanile, lì come cronista (per La Tribuna, L’Idea nazionale, chissà?). Ipnotizzato da Mussolini, il nostro (apolitico) vent’anni dopo la caduta, ironizzò da par suo sul fatto che Benito era stato capace di governare “contro” quaranta milioni di italiani: non se ne trovava più uno che fosse stato fascista. Narratore, commediografo, giornalista e sceneggiatore (1899-1977), con il surplus di quella cinica bonomia romana mutuata da Ettore Petrolini e dal suo “riso scemo”, sempre fuori dagli schemi, con il riso che sgorga da pagine pirotecniche, intrise di banalità calibrata ai limiti della demenzialità (colta, però).

“Un classico del ‘900” secondo Carlo Bo, sostenuto da Pirandello, Montale, Eco, era riuscito a imporre la natura anarcoide e rivoluzionaria di chi «sente il ridicolo dei luoghi comuni e perciò è tratto a fare l’opposto». E, addentrarsi nelle sue opere, significa veleggiare nel surrealismo della genialità. Preferite lo sberleffo del “cozzare delle passioni” di Se la luna mi porta fortuna (1928), o il naufragio dei malcapitati passeggeri di una nave costretti a indossare cinture di castità (e non di salvataggio) per una svista del comandante, di Agosto, moglie mia, non ti conosco (1930)? O il modulo drammaturgico fulminante di una gag istantanea delle Tragedie in due battute, insieme alla relazione improbabile tra Gli asparagi e l’immortalità dell’anima (1974), o al rifugio del «tasso della quercia del Tasso, il poeta», con il puzzle di dialoghi del Manuale di Conversazione (Premio Viareggio,1973), o il balletto dissacrante della morte apparente de Il povero Piero (1959), con Gaetano, il figlio goliardico, a comunicare dopo lo spettacolo (Piccolo Teatro Stehler, 2007; chi scrive, c’era): “Grazie da parte di Achille, mi ha telefonato poco fa”? Un microcosmo d’eccentricità, sciocchezze, freddure giù nel baratro di un assurdo assai probabile, in grado di prendere il linguaggio per i fondelli” (cit. Umberto Eco), dove l’ironia si fa funambolismo di parole e paradossi.

Achille prende in prestito un evento esterno, sospende il giudizio estremizzandolo, per dimostrare che ogni assunto non può essere ingabbiato da una definizione restrittiva. Il suo veleno ironico dà corpo alle battute garbate, ne sollecita altre, veicolate da una prosa curata, pignola e da un sapiente uso del lessico, affondando in una logica che destabilizza convenzioni sociali, ridicolizzandole, e lasciando spazio a riflessioni più elevate. Così, l’umorismo tracima, agganciato all’ambiguità delle parole destinate al “comico fuori posto e al rovescio”, sul terreno della pura astrazione fantastica, affondata però nella realtà quotidiana della borghesia sussiegosa. Tutto nel solco di un nonsense (molto prima di Ionesco), attraverso il tritacarne della denuncia di una dimensione ingessata, e lo sguardo sagace sulla realtà, lo spirito irridente e quel riso di cui avvertiva tutta la disarmata insensatezza, fino quasi (paradosso) alla sua metafisica inutilità.

Ritiratosi a Lariano vicino a Velletri, con i suoi tacchini e dietro una barba patriarcale. «Dove vai?», «All’arcivescovado. E tu?». «Dall’arcivescovengo». Achille Campanile, il grande. «Grazie, arcavolo!».

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