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Il libro di Ivano Cimatti getta nuova luce sul caso Pinelli

19.08.2023

Askanews ha intervistato l’autore

Roma, 19 ago. (askanews) – Askanews ha intervistato Ivano Cimatti, autore del libro ‘Il potere che offende. Quando Luigi Calabresi denunciò ‘Lotta Continua” (Pendragon), riguardante la vicenda dell’anarchico Giuseppe Pinelli, fermato perché indiziato d’essere coinvolto nell’attentato di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, e poi morto precipitando dalla finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi. La Questura di Milano sostenne che Pinelli si era suicidato perché scoperto dagli inquirenti d’essere uno degli autori della strage. L’autorità giudiziaria scelse di avvalorare la tesi del decesso per atto volontario. Lotta Continua, per ottenere la riapertura del caso, accusò pubblicamente Calabresi d’aver ‘suicidato’ Pinelli e per questo venne denunciata di diffamazione a mezzo stampa.

D: Il suo è il primo libro che affronti con metodo storico e documentato la figura del commissario Calabresi. Lo fa focalizzandosi su di un processo per diffamazione nel 1970-71.

R: Ho scelto di studiare quel processo perché il Presidente del relativo collegio giudicante fu sottoposto ad un processo penale per come aveva condotto quel dibattimento. Venne difeso da un celebre avvocato Filippo Ungaro del quale sto scrivendo, da anni, una biografia.

D: Calabresi da querelante si ritrovò quasi imputato. Potrebbe spiegarci la genesi e gli esiti di questo processo?

R: La genesi di quel processo discende dalla scelta di Lotta Continua di riaprire le investigazioni sulla morte di Pinelli, catalogata come morte per suicidio. Per mesi il giornale di Lotta Continua accusò Calabresi d’aver suicidato Pinelli. Il quale, lasciato solo dalle istituzioni, scelse di denunciare di diffamazione il responsabile editoriale di quel periodico. Fu una scelta sbagliata ed improduttiva. Dal dibattimento di quel processo apparve da subito evidente che la tesi della morte di Pinelli per suicidio fosse assurda ed inoltre che Calabresi e gli altri testimoni (moltissimi poliziotti e carabinieri) mentissero. Ed oggi sappiamo perché e di cosa; Calabresi e così gli altri testimoni nascosero che quella sera, negli uffici della Questura di Milano, operarono funzionari del Ministero dell’Interno i quali condussero le indagini e diressero appunto le investigazioni secondo l’inventata pista anarchica. Ecco perché quel processo fu un clamoroso autogol. Gli avvocati di Lotta Continua e moltissima stampa ebbe facile gioco nell’evidenziare la totale inverosimiglianza della versione dei fatti fornita prima da Calabresi e quindi dalla Questura di Milano.

D: Ma chi era – al netto delle demonizzazioni e successive riabilitazioni – il commissario Calabresi? Una pedina inconsapevole entrato in un gioco molto più grande di lui? Lo stesso potrebbe dirsi di Pinelli?

R: E’ indubbio che Calabresi scelse di obbedire ad illegittimi ordini impartiti da inquietanti funzionari della polizia, quelli della Divisione Affari Riservati specie in ordine la pista da seguire nella ricerca dei responsabili della strage di piazza Fontana. Dai documenti processuali connesse alle indagini sulla strage, sulla morte di Pinelli oltre che di quel dato processo nonché a carico degli anarchici accusati degli attentati del 25 aprile 1969 emerge che Calabresi sapesse che le accuse mosse a Pinelli fossero inveritiere: si difese, all’epoca, dicendo che aveva obbedito agli ordini del suo capo ufficio, il responsabile dell’Ufficio Politico della Questura di Milano; inoltre Calabresi, alla stregua degli altri funzionari di pubblica sicurezza che interrogarono Pinelli quella sera (il 15 dicembre 1969) ha scientemente violato la norma di cui all’articolo 78 dell’allora codice di procedura penale. Ed invero diverse ore prima della sua precipitazione dalla finestra dell’ufficio di Calabresi Pinelli nevvero fu accusato formalmente dal capo dell’Ufficio Politico d’aver partecipato agli attentati del 25 aprile. Quella norma processuale prevedeva che, a quel punto, l’interrogatorio si sarebbe dovuto interrompere immediatamente e si sarebbe dovuto invitare Pinelli a nominare un difensore di fiducia e quindi liberarlo e/o trasferirlo in carcere. Invece l’interrogatorio, condotto da Calabresi, continuò in violazione di legge e culminò con la sua precipitazione. Calabresi inoltre sapeva che le accuse per le quali era stato fermato erano il frutto dell’inventata pista anarchica da parte dei funzionari della Divisione Affari Riservati del Ministero dell’Interno. Pinelli era un idealista che, in quelle ore, fu pervaso del dubbio che il suo mondo, quello degli anarchici duri ma puri, potesse essere in qualche modo coinvolto nell’orrenda strage di piazza Fontana. Nel corso dei suoi interrogatori, tuttavia illegittimi perché il fermo di Pinelli non venne mai ritualmente convalidato dalla magistratura, Pinelli propose verità e circostanze talvolta inesatte. D’altronde occorre ribadire che l’imputato, nel nostro ordinamento, ha il diritto di mentire.

D: Quali sono le scoperte più rilevanti della sua ricerca e quali fonti ha privilegiato?

R: Il mio libro è il risultato di due anni di ricerche d’archivio: ed ho consultato i fascicoli personali delle persone coinvolte nella vicenda. Nella ricostruzione della vicenda storica, a differenza di gran parte degli studi in materia, ho ricercato direttamente le fonti e gli elementi ricercando fra le carte processuali dei vari dibattimenti che sulla strage e sulla morte di Pinelli si sono tenuti negli anni e fra le carte della polizia e dei servizi coinvolti. Verificando le conclusioni, anche istruttorie, cui pervennero le diverse giustizie ed in particolare del giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio. La novità più rilevante del libro è aver mostrato che la ricostruzione di quei fatti sia frutto d’una narrazione che prescinde in massima parte dai fatti stessi: frutto ed il precipitato d’una lettura ideologica e romantica di quelle pagine. Disvelando clamorosi errori strategici fin dall’inizio della vicenda. Il processo che avrebbe dovuto consentire di comprendere le ragioni sulla morte di Pinelli non consentì di ottenere alcun positivo risultato. L’errore di fondo, parrebbe in verità in parte quasi voluto dalla galassia di Lotta Continua, fu d’aver fossilizzato l’indagine sulla morte d’un innocente sull’operato d’uno (solo) dei tanti poliziotti coinvolti nella vicenda: nonostante fosse chiaro che moltissimi e non solo Calabresi fossero in qualche modo coinvolti nel caso. Gli avvocati che difesero Lotta Continua in quel processo non si resero conto che già, in quella sede processuale, emersero indizi che Calabresi fosse stato uno dei tanti poliziotti coinvolti. I diversi magistrati che, negli anni successivi, indagarono sulla morte di Pinelli spesso commisero gravissimi errori procedurali che paiono quasi volontari. Nel libro vengono evidenziate alcune reali novità. Per decenni è stato sostenuto, da tutta la stampa e la manualistica, che la presenza degli uomini della Divisione Affari Riservati in quei giorni all’interno dell’Ufficio Politico della Questura di Milano sarebbe emersa solo nel 1996 quando, nel corso delle nuove investigazioni sulla strage, venne rinvenuto l’Archivio della Divisione di Circonvallazione Appia. In verità, già nel giugno del 1970, Silvano Russomanno al giudice istruttore Ernesto Caudillo del Tribunale di Roma, confessò d’essere arrivato a Milano fin dal 12/13 dicembre 1969. Quel giudizio non terminò, come sempre ed ovunque attestato, con la condanna in primo grado del Direttore Responsabile di Lotta Continua bensì con una dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione statuita dal giudice di appello. Quel processo come è noto fu sospeso per le gravissime opinabilità del Presidente del collegio Carlo Biotti il quale fu sottoposto, per le medesime questioni, a processo penale. Il quale si concluse sì con l’assoluzione dello stesso, ma con una sentenza (del 4 giugno 1976 della Suprema Corte di Cassazione) che lo definì un giudice eticamente indegno. La statuizione di indegnità nondimeno, circostanza questa mai rilevata da alcuno, non impedì al CSM, quello diretto da Vittorio Bachelet, di promuoverlo, pur se pensionato da quasi quattro anni, consigliere di Cassazione. La particolarità è che in questa procedura il CSM nascose la presenza d’altre procedure disciplinari sicuramente fondate e certe: la conclusione è che alla fine quell’apparato di relazioni, amicizie e frequentazioni che permisero lui di permanere magistrato nonostante svariate fallacie professionali, opacità ed un’azione decisamente improvvida, alla fine, lo volle tutelare. A dispetto di tutto e tutti.

D: Si è fatto un’idea di come morì Giuseppe Pinelli?

R: La morte quasi sicuramente non fu voluta ma occasionale. Anche perché Pinelli non fu in vita depositario di segreti e verità rilevanti in ordine l’attentato ovvero sui movimenti politici che, sul finire degli anni sessanta, si opponevano alla politica governativa. Da lui gli anonimi funzionari della Divisione Affari Riservati, quella notte speravano solo di ottenere una qualche prova che suffragasse l’inventata pista anarchica. La direttrice investigativa che riconduceva la strage agli anarchici. Morì perché i non convenzionali metodi d’interrogatorio di quelle persone andarono molto oltre il dovuto e l’ipotizzato.

D: Come ne esce lo Stato italiano dell’epoca dalla vicenda Pinelli

R: La vicenda Pinelli fu il primo caso di innocente deceduto per colpa e responsabilità dello Stato che lo aveva in custodia. All’epoca la reazione dell’opinione pubblica fu di incredulità e di paura perché quella morte pareva impossibile solo ad immaginarsi. Lo Stato, nella persona delle istituzioni preposto all’ordine pubblico, si dimostrò incapace di rispondere alla più semplice delle domande: come e perché fosse morto Pinelli. Lo Stato rimosse la questione e liquidò il decesso parlando di suicidio nonostante le evidenze dicessero il contrario. Nel complesso lo Stato italiano ne uscì malissimo preparando l’opinione pubblica all’idea che esso fosse nemico ed ostile.

D: Quali sono state le prime reazioni al suo libro?

R: A parte casi rari, le reazioni sono state quasi disastrose. Diversi storici e giornalisti, dichiaratosi precedentemente interessati, uno alla volta si sono dileguati anche coloro che si fecero spedire dall’editore il libro.

D: Nella prefazione al suo libro, il giudice Guido Salvini scrive che non esistono più dubbi, ormai, che a uccidere Calabresi sia stata Lotta Continua, come del resto ha certificato il relativo processo. Come mai l’omicidio Calabresi ha rappresentato un gigantesco scheletro nell’armadio della storia italiana?

R: La ragione dipende dalla circostanza che la campagna di stampa organizzata da Lotta Continua nei confronti del commissario Calabresi aveva trovato ampio e diffuso spazio in moltissima parte dell’opinione pubblica e politica della sinistra. Subito dopo l’omicidio si comprese che la focalizzazione della campagna nei confronti del commissario per la riapertura del caso Pinelli fu sbagliata oltre che ingiusta. La sinistra pertanto scelse di obliare rimuovendo l’iniziale scelta. La morte di Calabresi divenne pertanto argomento scomodo e fastidioso

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