13.04.2023
L’11 aprile è stata la Giornata Mondiale del Parkinson. Tutti ne parlano e si affannano in previsioni, mentre si scava nella ricerca. Ma il mistero è sempre lì, ancora irrisolto
Alcune grandi big pharma si sono addirittura arrese alla difficoltà di trovare soluzioni. La verità è che trovano più conveniente curare i sintomi che andare al fondo della malattia. Così come per il cancro, l’Alzheimer e così via.
Ed intanto la “paralisi agitante” interessa 5 milioni di persone nel mondo, 3000.000 in Italia, dove si stima che in futuro si ammaleranno 6.000 persone ogni anno. È una malattia che interessa soggetti dai 60 anni in poi, ma può presentarsi anche in età giovanile: da giovani si presenta in forma meno grave, associata a movimenti involontari; da anziani è accompagnata da perdita della postura e dell’equilibrio. Viene stimata una malattia non terminale, perché si vive fino a 25 anni dopo la prima diagnosi, ma possiamo immaginare come si vive.
Una delle chiavi che promette qualche speranza in più nelle cure anticipate è la diagnosi precoce. Lo strumento più recente è l’ipomimìa, la riduzione delle espressioni facciali sia spontanee che volontarie: emerge da uno studio chiamato Coppadis, un acronimo di Cohort of Patients with Parkinson Disease in Spain, pubblicato anche su PubMed, la Bibbia mondiale della medicina, e condotto in Spagna su circa 800 pazienti affetti da Parkinson. L’analisi dei dati mostra un’associazione molto stretta tra la gravità dell’ipomimìa e i parametri del linguaggio e della bradicinesia, unitamente alla gravità dell’apatia e a una disfunzione di diversi sistemi cerebrali coinvolti nel controllo motorio, nel riconoscimento e nell’espressione delle emozioni. In sostanza, l’ipomimìa nel Parkinson va interpretata non come un sintomo esclusivamente motorio, ma come la conseguenza di un deficit multidimensionale. Quindi il sintomo precoce per eccellenza. E poi la perdita dell’olfatto e le immancabili varianti genetiche nel corso della vita.
La ricerca con i finanziamenti della Michael J. Fox Foundation ha testato un dispositivo indossabile simile aduna cuffia che fornisce schemi di autoneuromodulazione non invasiva con farmaci dopaminergici del tronco cerebrospinale. Insomma, il paziente si cura da sé. Ma c’è dell’altro. Lo suggerisce il neurochirurgo Massimo Scerrati dell’Università di Ancona. Innanzitutto, la diagnosi precoce attraverso la saliva. E poi la stimolazione profonda invasiva con elettrodi endocerebrali, governato da un’intelligenza artificiale in una sorta di pacemaker. Una soluzione già sperimentata alla Neuromed di Pozzilli, e pare accreditata dai risultati del clinico. Non è in grado di arrestare il decorso della malattia, ma la monitora e interviene alla comparsa dei sintomi. E poi si parla molto della mucuna pruriens, una pianta leguminosa del Sud povero del pianeta, che conterrebbe in natura levodopa, il principio attivo oggi più usato nei farmaci.
Infine, la convivenza con il Parkinson. Tra lo stare insieme all’aperto e dedicarsi alla danza, per continuare a vivere. In attesa di un miracolo. Non dall’alto dei cieli, ma dal basso della scienza.