21.11.2023
L’armata dei narcisi digitali avanza. Con l’informazione che cambia linguaggio, tra soggettività e socialità. Si utilizza Internet per vendersi come notizia e innescare un insieme di strategie mediatiche di autopromozione “manageriale” del Sé: le patologie di una vita iperconnessa scambiata con la realtà.
Difficile fronteggiare la crescita esponenziale dei mezzi di comunicazione e sfuggire a una società dei consumi e dello spettacolo che ci spinge a essere socialmente desiderabili e “commercialmente” appetibili. La Rete travolge consuetudini e favorisce quell’accesso di massa ai processi di produzione delle informazioni, irrobustendo concetti di “partecipazione” e “condivisione”, presupposti culturali e sociali dai quali il Web ha tratto ragion d’essere. Il buon Cartesio sembra rassegnato a prenderne atto. “Digito ergo sum” soppianta il primigenio “Cogito”, ribaltando approcci filosofali e stili di vita. Così, è cresciuto il popolo di Internet parallelamente a quello reale, in un rapporto biunivoco di reciprocità che si è alimentato di un travaso di esperienze, storie, confidenze, immesse nel grande flusso informativo quotidiano. La dimensione virtuale diventa perimetro entro il quale inscrivere la materialità della condizione sociale di ogni suo membro.
Ci siamo anche noi, s’intende. La Rete è vita, movimento, progettualità, occasione d’incontri, volano di produttività, ma anche amplificatore di aggressività represse, passioni tossiche e infelicità diffusa. Con quel “soli insieme” che traduce una condizione illusoria di socialità e cela a malapena fessure laceranti di solitudini non comunicanti, c’è l’altra faccia di un presunto paese dei balocchi condannato all’euforia perpetua. Le tecnologie digitali innervano i social network, ma rimanendo dei mezzi che informano e non formano, da utilizzare con misura e consapevolezza, inevitabilmente conquistano anche frange di fruitori–produttori informativi, sensibili al fascino nascosto (ma non troppo) dell’autocitazione e autoreferenzialità, con quelle pulsioni narcisistiche votate all’esibizione di se stessi e di una vita “altra”, luccicante, patinata, sganciata dall’anonimato della quotidianità.
Una sorta di riscatto social-esistenziale secondo i protagonisti (prima, semplici comparse) protetti dall’anonimato della tastiera. L’importante è apparire e far parte di una comunità: il motto. L’incanto dello specchio si fa strada, la seduzione del selfie diventa pratica comunicativa, segnando il sorpasso dell’immagine sulla parola. A tal punto che l’esigenza di likes e followers diventa spasmodica, e la ricerca di approvazione online una priorità. Nelle dinamiche psicologiche e relazionali delle comunità virtuali la condizione del narcisismo digitale sfiora la sindrome patologica (depressione, ipocondria, voyeurismo, disordine ossessivo compulsivo), diventando comportamento a rischio, vincolato ad una vita iperconnessa spesso scambiata con la realtà. Così, i social network incorporano i nativi digitali, dominati da effimero e culto edonistico dell’immagine in un vortice bulimico. Lo status di un Sé attuale, percezione delle qualità realmente possedute, affinché si accrescano senso critico e responsabilità nei confronti di un digitale altrimenti sfuggente, rischia di essere soverchiato da un Sé ideale, concentrato viziosamente sulla rappresentazione delle caratteristiche che ognuno di noi vorrebbe possedere. Unica via auspicabile, allora, rimane quella della alfabetizzazione mediatica per contrastare gli inganni della Rete, attraverso l’avvento di un rinnovato umanesimo, il solo capace di ridare pienezza di significato all’intero ecosistema online. I bisogni emozionali devono caricarsi anche di profonde valenze etiche. “La vita non è contattarsi, ma comunicare”.