15 Aprile 2025
/ 10.04.2025

La contraddizione ecologica di Trump

Mentre si vanta di “fare grande l’America”, Trump consegna il suo Paese a un evidente paradosso: un protezionismo che difende l’industria ma abbandona il suolo che la sostiene

Il caos creato nei mercati mondiali da Donald Trump con la sua visione protezionistica innesca dinamiche analoghe in settori cruciali per lo sviluppo del Paese. Il presidente degli Stati Uniti sta infatti cercando di annientare le politiche green finora sostenute anche in ambito internazionale. Al ritiro degli Usa dall’Accordo di Parigi – bollato come un freno all’economia – sono seguiti i tagli per la ricerca sulle energie rinnovabili e la sforbiciata al budget dell’Agenzia per la protezione ambientale. Mosse presentate come lotta alla burocrazia ma che in realtà disegnano una visione in cui il pianeta viene utilizzato come un serbatoio da sfruttare fino all’ultima goccia, senza considerare che natura ed esseri umani sono parte di un ecosistema interdipendente, che richiede equilibrio.

In questa stessa logica si inserisce un altro taglio: quello al sistema nazionale di conservazione delle piante, il Us National plant germplasm system, a cui Trump aveva già ridotto del 10% il personale, mandando a casa gestori agricoli, ricercatori, tecnici di laboratorio e orticoltori. Progetti cruciali – dai test di germinazione al rinnovo delle scorte di semi, fino a studi a lungo termine – sono sospesi, lasciando il sistema nel caos.


A parlarne è Thor Hanson, biologo di fama internazionale, autore The triumph of seeds, che dalle pagine del The Guardian spiega l’importanza dei semi partendo da piccoli gesti quotidiani: “Immaginate una mattina senza semi. Vi svegliate nudi, su un materasso senza lenzuola, senza pigiama. Niente asciugamani di cotone dopo la doccia. In cucina, niente caffè, pane, uova, latte o cereali. Nessuna barretta di cioccolato, perché anche cacao e burro di cacao vengono dai semi”.

Direte voi che prima di arrivare a trovarci nudi su un letto perché privi della materia prima che ci copre ce ne vuole. Ma se la linea del tempo non è quella che più rende l’emergenza imminente, pensate quantomeno alla linea materiale. Da un seme dipende tutto. Più semi scompaiono, meno materie prime avremo a disposizione.

Basti pensare al cibo. E quindi all’agricoltura, che – tra l’altro – si trova a dover affrontare una delle emergenze più critiche: quelle dei cambiamenti climatici. Investire sulla ricerca dei semi, significa avere la possibilità di sviluppare varietà resistenti a malattie e di adattarsi a un clima sempre più ostile. Secondo le stime della Fao, entro il 2050 saranno quasi 10 miliardi le persone da sfamare e, per garantire cibo sano a tutti, l’agricoltura dovrà essere in grado di affrontare un clima che cambia velocemente, con acquazzoni sempre più frequenti, lunghi periodi di siccità e terre che scompaiono perché inondate dai mari che si alzano.


Negli Stati Uniti, a Fort Collins, in Colorado, la banca nazionale dei semi custodisce oltre 2 miliardi di campioni, con più di 620.000 varietà da quasi 17.000 specie diverse: una delle collezioni più vaste al mondo, fondamentale anche per rifornire il Global seed vault di Svalbard, in Norvegia. È stata progettata per resistere a catastrofi naturali – inondazioni, incendi, terremoti, blackout, tornado – perché gestire una collezione di semi richiede un’attività continua. I semi si degradano lentamente per questo devono essere testati regolarmente per verificarne la vitalità: quando i tassi di germinazione calano, è necessario piantarli e portarli a maturazione per produrre nuove scorte. Questo lavoro viene svolto in più di 20 stazioni di ricerca in luoghi dal clima molto diverso, come il North Dakota, il Texas, la California, le Hawaii e Puerto Rico.

Mantenere vive queste strutture, negli Stati Uniti come nel resto del mondo, è un dovere della politica, perché si tratta di mantenere vivo un bene comune, necessario per la sopravvivenza stessa dell’umanità. E l’Italia?

“In Italia i finanziamenti sono insufficienti e alcune banche del seme stanno chiudendo”, spiega Federica Bigongiali, agronoma e direttrice della Fondazione “Seminare il futuro”, che collabora con il centro di ricerca “Enrico Avanzi” dell’università di Pisa. “Il rischio è che non si riesca più a mantenere in vita le piante selvatiche, specie antiche ormai prive di valore commerciale per l’agricoltura moderna. Eppure, il loro patrimonio genetico è unico, e oggi più che mai fondamentale per rendere l’agricoltura resiliente”. Inoltre, non va dimenticato che disporre della maggiore varietà genetica possibile richiede non solo attività di ricerca, ma anche un impegno continuo nella conservazione: “Il seme si evolve attraverso la coltivazione. Se non riusciamo a rigenerarlo periodicamente, un processo essenziale per garantirne qualità e vitalità, rischiamo di perdere per sempre una parte preziosa del nostro patrimonio genetico.”

Mentre si vanta di “fare grande l’America”, Trump consegna il suo Paese a una contraddizione evidente: un protezionismo che difende l’industria ma abbandona il suolo che la sostiene. A farne le spese sarà l’agricoltura, la biodiversità, e noi essere umani che, di questo passo, saremo costretti a vivere in un ecosistema sempre più impoverito e vulnerabile agli shock ambientali e climatici.

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