28.06.2024
Il patrimonio culturale umano ancora obiettivo di guerra
I beni culturali sono spesso considerati obiettivi strategici nei conflitti bellici. L’intenzione è quella di annientare ogni traccia culturale del nemico o svendere quel che si trova nel mercato nero per capitalizzare guadagno. Restano numerose le violazioni, nonostante le varie convenzioni stabilite dalla comunità internazionale.
La guerra non semina soltanto e drammaticamente morte. Sono molti i beni culturali messi a dura prova dai conflitti susseguitisi in questi ultimi decenni. Basti pensare, per fare alcuni esempi, alla distruzione del santuario e di altri edifici a Timbuktu, nel Nord del Mali, ad opera dei militanti di Al Quaeda, ai danni alla grande Moschea di Samarra, in Iraq, dovuti all’attacco contro un convoglio della Nato, a quelli alla cittadella di Aleppo, in Siria, in seguito alla battaglia tra l’esercito siriano e il Free Syrian Army, al danneggiamento della città di Palmyra e, ancora, ai Buddha di Bamiyan, in Afghanistan. Sono oltre trecentoquaranta i siti di valore storico, artistico e culturali compromessi a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina.
Numerosi anche i furti nei musei. L’occhio cieco dei combattenti sembra vedere molto bene e colpire proprio al cuore delle genti quando punta i suoi obiettivi su complessi monumentali e luoghi significativi, che rappresentano forme di espressione mirabile di popoli e culture. Le più importanti convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale sono state pensate proprio in quest’ottica di difesa contro eventuali, nuovi, agenti ostili. Il contesto storico in cui si colloca la loro ratifica è, infatti, quello del dopoguerra. La “Convenzione sulla protezione del patrimonio mondiale, culturale e naturale dell’Umanità” e la “Convenzione UNESCO per la Salvaguardia del patrimonio culturale” testimoniano la necessità di delimitare i confini da non travalicare oltre la soglia del “valore di civiltà”. C’era bisogno, all’epoca, di riaffermare l’identità di stati-nazione, in un percorso persino contradditorio, ma necessario, che, se da un lato manifestava la volontà di esistenza culturale particolare, dall’altro guardava ad una cittadinanza culturale assegnata, nel contempo, ad un territorio e a tutti gli uomini. Strumenti contro quella parte dell’umano che preoccupa, capaci di delimitare il perimetro autorizzato di definizione di patrimonio, anche in maniera simbolica. Lo sguardo al valore simbolico dei pronunciamenti sta proprio nell’incapacità di preservare, in concreto, i beni culturali materiali in caso di guerre. La “Convezione Europea del Paesaggio”, la “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale” e la “Convenzione di Faro” guardano proprio ai prodotti della percezione, al riconoscimento, considerato esso stesso patrimonio nel suo carattere progettuale, se possibile comunitario, negoziato.
La “tradizione” può acquistare ora un senso più veritiero. Essa non sta nel preservare e raccontare una storia impossibile di conservazione, ma nel vagliare, nel sempre attuale flusso continuo, risposte consapevoli in grado di esprimere scelte e azioni patrimoniali. Come dire, si può fare storia quando non c’è storia o quando si racconta una storia pur falsa, ma coerente con le enunciazioni raggiunte. Un cammino che procede all’inverso, dal presente al passato, con figli che generano padri, verso un futuro che è “oggi” e che spetta, davvero, ad ogni uomo.