16 Maggio 2024
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Spettacolo

Il teatro alla ribalta delle convenzioni popolari dei mondi sepolti

14.09.2023

Roberto De Simone, padrone del Melodramma, dell’Opera buffa e del ‘700 tradizionale, fa rivivere una Gatta Cenerentola rivoluzionaria che ribaltò le convenzioni. Un mito teatrale tra gioco, tragedia e musica colta nel tessuto onirico e fantastico della Napoli multiforme dalla matrice popolare.

La fucina d’idee di Roberto De Simone, novantenne, è incastonata tra teatro, musica e scandaglio antropologico, là dove il “popolare” si libera dai lacci nostalgici della memoria per essere rimodellato in un presente dalla coscienza attiva, sul filo di villanelle, moresche e tammurriate, attraverso ricerche negli anni ’60 e ’70, tutte poi confluite nella prorompente espressività della Nuova Compagnia di Canto Popolare capace di rinvenire suoni arcaici della storia sommersa napoletana.

Così, De Simone, profondo conoscitore del Melodramma, dell’Opera buffa (Mistero Napolitano, L’Opera buffa del Giovedì Santo) e del ‘700 tradizionale, tra surrealismo demoniaco e scelta di privilegiare Raffaele Viviani (Festa di Piedrigotta, Eden Teatro, Carmina Vivianea) e la coralità dei suoi personaggi rispetto all’interno dell’universo piccolo-borghese perbenista di Eduardo, con il cuneo di una lingua corrosiva si avvicinò a quel prodigio inventivo de La Gatta Cenerentola, partendo da Palazzo dello Spagnuolo, simbolo della città ancestrale, impastata di sogno e mito: la Napoli inafferrabile di sempre. Coacervo imprevedibile di contraddizioni, capitale detronizzata in cui si è sedimentata, attraverso le dominazioni, la necessità vitale di camuffarsi, travestirsi.

Con la musica interprete di grumi di vita e propaggini poetiche. Una favola in musica che, fin dall’esordio al Festival dei Due Mondi di Spoleto (1976), nel mix di rimandi storici e culturali, frammenti della tradizione popolare, groviglio di gestualità e linguaggio “alto” e “basso”, e si propose come elemento dirompente di schemi drammaturgici di un passato (ritenuto) intoccabile. De Simone, il maestro del Conservatorio San Pietro a Majella (poi, direttore del Teatro San Carlo), regista e ricercatore finissimo, con il suo prodigioso gruppo di cantanti-attori (Barra-Vetere-Mauriello-D’Agostino-Danieli-Morea) aveva innescato un gioco pirotecnico di citazioni, elaborazioni melodrammatiche e linguaggi contrapposti socialmente, incagliati nella morsa di un vernacolo oscuro, sulla linea favolistica tracciata da Giambattista Basile (Lo Cunto de li cunti, 1634, antesignano dei Grimm e di Perrault), nel seguire le vicende di una figliastra vessata dalle angherie di una matrigna rapace (un attore uomo – Peppe Barra, poi, Rino Marcelli – in panni femminili) schiacciata dalla sterile crudeltà delle sorellastre, nel magma incandescente di una città surreale, sedotta dalla magia del “munaciello” (spiritello bizzarro), dalla tragedia del “femminiello” (ermafrodita sacro), dal “tarantismo” dell’ossessionato ballo delle “lavannare” (lavandaie); ossequiosa nella recita di rosari e giaculatorie blasfeme, condizionata dalla cabala dei numeri al lotto, e fideisticamente in attesa dello scioglimento del sangue del Santo decapitato. Dove il gran ballo per la festa a Palazzo Reale si trasforma in tappeto fiabesco per una Cenerentola mai doma, metafora del riscatto, che ritrovata la scarpetta smarrita diventa sovrana.

Schivando Jesce sole, quell’invocazione struggente iniziale, atto premonitore (forse) del vuoto e degli eventi sinistri di oggi, che rimane in sospensione ad illuminare speranze sempiterne nella città dell’irresolutezza.

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