05.12.2023
Il teatro denuncia la pratica della tangente
La corruzione ha un futuro, così la pensa il furbo Chestlakov. Anche il teatro di Gogol, nel denunciare il male della corruzione, sembra arrendersi davanti alla sua capillarità; per farci comprendere che a trent’anni dalla stagione di Mani pulite, la tangente non sia scomparsa. Intanto, da noi, vengono divorati 60 mld di euro all’anno.
Se avesse potuto, con la macchina del tempo, Nikolaj Gogol avrebbe invitato il suo Chestlakov de L’ispettore generale (1836) a leggere (in cirillico?) l’annuale Corruption perception index, di Trasparency International, l’Ong internazionale della lotta alla corruzione (Italia al 42simo posto), per comprendere che a trent’anni dalla stagione di Mani pulite, la tangente, simbolo del malaffare, non sia scomparsa.
È lo stesso terreno sdrucciolevole di questo presunto funzionario inviato dal governo centrale zarista in una cittadina della remota provincia russa, dove cattiva coscienza e dubbia moralità delle figurine che vi si agitano scattano all’unisono, sorde a ogni richiamo di correttezza, prodighe solo di favori per ingraziarsi lo sconosciuto e celare la corruttela. Una fantasmagoria surreale con Rocco Papaleo (andata in scena al Teatro Carcano di Milano, poi a Verona dal 5 al 10 dicembre) che indaga il sistema distorsivo politico-sociale, nei toni del grottesco rappreso: labirintico percorso tra casette sagomate e porte che si aprono a enigmi, in cui l’ambiguità furbesca di Chlestakov (Daniele Marmi), col fido Osip (Giulio Baraldi), si infrange contro il lato oscuro (e preoccupato) del potere, incarnato nei tratti ammiccanti, ringhiosi e grifagni del podestà Papaleo. Sulla scia dei collusi (di sempre) con Gennaro Di Biasi, sovrintendente alle Opere Pie (truffaldine), nell’approccio registico, frontale e realistico, di Leo Muscato. Un riso soffocato nel dubbio, dagli echi kafkiani, che traslato nella scena evocatrice, interrogante, corrisponde alle vicende di casa nostra.
Tema di vischiosa attualità, transitata dai rischiosi passaggi di buste gonfie di soldi ai mezzi di comunicazione glissati secondo un andamento carsico. La nuova corruzione si è riverniciata diventando sistemica, nel favorire il flusso di “tangenti pulite e contabilizzate”, vera nuova frontiera della gestione dei paradisi fiscali, dei corridoi entro i quali dirottare bonifici all’estero, o ricorrere a prestanome, consulenze fittizie, prestazioni “in natura”, proventi di dubbia provenienza.
La tangente diventa, allora, pratica comune per ottenere finanziamenti, pilotare appalti, acquisire contratti pubblici, licenze, strappare contratti, o superare esami universitari, scalare concorsi sanitari. Incastonato in un mercato illegale (paramafioso), tutt’altro che disorganizzato e caotico, una metodologia comportamentale attraverso reti informali di relazioni, con norme non scritte (ovviamente) che regolano funzioni e ruoli, raccolta e redistribuzione di tangenti, e naturalmente profitti. Con il surplus delle contropartite diluite nel tempo (per fugare sospetti sulla merce di scambio), anche per una semplice assunzione o un concorso pilotato. Chi ha contatti con la pubblica amministrazione conosce le “regole del gioco”, il prodotto, cioè, di un processo di “selezione naturale” (cit, l’ex magistrato Davigo), che dalle inchieste giudiziarie degli anni ’90, si è rimodellato ottimizzando una capacità adattativa a fini predatori, in una miscellanea biunivoca di corrotti e corruttori, dalle tecniche sempre più raffinate e per questo sfuggenti. Così, spodestando la legalità (divorati 60 mld € all’anno), una corruzione capillare presidia quel limbo d’indeterminatezza, dove l’impunità si sposa con disinteresse e sfiducia generalizzata verso l’onestà di un’intera classe politica, sempre più sorda (se non connivente). Vizio endemico d’un sistema pietrificato: la foto d’assieme finale. Chestlakov, il furfante, sogghigna. La corruzione ha un futuro.
Credito fotografico: Le Pera