Se la partita contro la crisi climatica si gioca anche nelle foreste, allora c’è da essere preoccupati per l’esito finale perché il 2024 rappresenta un allarme rosso per le foreste tropicali. La notizia buona è che le soluzioni ci sono, ma servono volontà politica, finanziamenti e una profonda trasformazione del nostro modello economico.
Nel 2024, la distruzione delle foreste tropicali primarie ha raggiunto livelli mai registrati prima: 6,7 milioni di ettari persi al minuto, l’equivalente di 18 campi da calcio, secondo l’ultimo report di Global forest watch del World resources Institute (Wri) e dell’Università del Maryland. È un aumento dell’80% rispetto al 2023, in gran parte legato a incendi sempre più intensi dovuti all’aumento delle temperature globali e a condizioni estreme accentuate dal fenomeno El Niño. Si tratta del livello più alto dall’inizio della raccolta dei dati nel 2002. Il dato è in aumento dell’80% rispetto al 2023.
Incendi, nuovo motore della deforestazione
Per la prima volta, gli incendi — spesso dolosi per fare spazio a coltivazioni — hanno superato l’agricoltura come causa principale della perdita forestale. Le emissioni associate hanno raggiunto 3,1 miliardi di tonnellate di CO₂, superando quelle energetiche dell’intera India. La degradazione del suolo e la siccità prolungata, causate dalla crisi climatica, alimentano un ciclo in cui il carbonio immagazzinato nei boschi torna rapidamente in atmosfera.
Il Brasile è quello che ha registrato le performance peggiori con una perdita di 2,8 milioni di ettari e l’Amazzonia di nuovo epicentro della devastazione. Due terzi di questa perdita sono legati agli incendi, spesso appiccati per coltivare soia o allevare bovini. Il ritorno della deforestazione arriva dopo un 2023 più positivo, quando le misure del presidente Lula avevano temporaneamente rallentato il fenomeno.
Bolivia e Africa in crescita
Anche la Bolivia ha visto un’esplosione della distruzione: le superfici perse sono triplicate rispetto all’anno precedente, in gran parte per favorire l’agricoltura industriale. In Congo e Repubblica Democratica del Congo, invece, le perdite sono aumentate sensibilmente, mentre Indonesia e Malesia mostrano segnali di miglioramento, frutto di accordi internazionali e maggiori controlli.
Il Wri mette in guardia: non solo soia, olio di palma, legno e carne bovina – i cosiddetti “big four” – ma anche nuove filiere contribuiscono alla deforestazione. Tra queste, le coltivazioni emergenti, come caffè, cacao e avocado, e l’industria estrattiva per ottenere metalli critici necessari alla transizione energetica (es. litio, rame). Come sottolinea Rod Taylor, direttore del programma Foreste del Wri: “Le cause della deforestazione stanno cambiando. La lotta alla crisi climatica e alla perdita di biodiversità richiede un approccio olistico e multisettoriale”.
Cosa possiamo fare
Secondo il report, fermare la deforestazione entro il 2030 — impegno preso da oltre 140 Paesi alla Cop26 — richiede maggiori investimenti nella protezione delle foreste (oggi riceve meno del 2% dei fondi per il clima); trasparenza nella catena di approvvigionamento dei prodotti agricoli; coinvolgimento delle comunità locali e indigene, che custodiscono l’80% della biodiversità mondiale; applicazione di strumenti di monitoraggio satellitare per interventi tempestivi e, infine, norme più severe contro la deforestazione legata al commercio globale, come la nuova normativa Ue sul deforestation-free trade.