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Cultura

Incontro con Wole Soyinka: emblema della dignità di un intero continente

21.01.2024

New York, NY - 20 novembre 2019: Il poeta premio Nobel Wole Soyinka in occasione del 13° anniversario dell'adozione della Convenzione sui diritti dell'infanzia, presso la sede delle Nazioni Unite.

«Ci limitiamo a sostituire imperatori bianchi con quelli neri» è la voce dolente del primo scrittore africano a vincere il Premio Nobel della Letteratura nel 1986. Dal commercio, alla cultura, agli scambi umanitari, per lui le risposte del mondo occidentale sono sempre insufficienti, senza contare le responsabilità (non lievi) dei leader africani.

Adornato dalla glassa bianca di capelli che s’avvitano fin lassù, si presenta in punta di piedi. Spirito libero. Coscienza critica. Contro tutti. A favore della dignità di un intero continente: la sua Africa. Lui è Wole Soyinka. Il primo africano a vincere il Premio Nobel per la Letteratura nel 1986. Le denunce del genocidio in Biafra, quelle di oggi a Boko Haram; le lotte contro i soprusi e le violenze alle donne vittime dei regimi dittatoriali, l’accusa di cospirazione con i ribelli biafrani per un articolo a favore della cessazione delle ostilità, sono le tappe di un personaggio scomodo. Stella polare dell’Africa contemporanea, ha collezionato denunce, sanzioni e lunghi mesi (22) trascorsi in cella di isolamento, dove solo la carta igienica, avvolta in cartine di sigarette o fra le pagine di libri, potè accogliere memorie dolorose, poi, corpus de L’Uomo è morto (2016). Fino alla pronuncia della condanna a morte (anni ‘90) e alla fuga forzata “sul sellino di una moto” (cit.), verso l’esilio per sfuggire alla dittatura di Sani Abacha. Soyinka, classe 1934, nigeriano di Abeokuta (Lagos, la capitale, è l’altro suo punto di riferimento) con quel profondo senso d’appartenenza all’etnia Yoruba e al continente sub-sahariano, ha sempre difeso diritti violati, contrastato offese e soprusi, nello srotolare una poliedrica attività letteraria, in cui il plot romanziere-drammaturgo-poeta-saggista diventava punta acuminata di un unicum assai sfaccettato.

Il talento linguistico innerva una prosa vivida e coinvolgente, sul filo della suspense e delle emozioni, con personaggi tridimensionali sotto i riflettori d’una esplorazione della condizione umana condizionata da identità e politica. Gli elementi drammatici e simbolici s’impongono, seppur edulcorati da sottile satira. Ecco, allora, Africa (2015), ancora da scoprire, La strada (2018), Gli interpreti (2017), Ode laica per Chibock e Leah (2019), in cui Mandela incontra idealmente una delle studentesse rapite da Boko Haram in un villaggio nigeriano e non ancora liberata, fulcro del male come processo d’incubazione infinito. Già drammaturgo al Royal Court di Londra e prof a Yale e ad Harvard, continua a sostenere la necessità di un dialogo tra l’Africa e l’Europa, ma tra le righe traspare un fondo di pessimismo: non c’è (mai stato) uno scambio paritario, né un riconoscimento reciproco, soltanto un confronto monologante e unidirezionale. Dal commercio, alla cultura, agli scambi umanitari, le risposte del mondo occidentale sono sempre insufficienti, senza contare le responsabilità (non lievi) dei leader africani. Le Cronache dal paese della gente più felice della Terra (2023), beffardamente caustiche, irrompono in una Nigeria immaginaria, tra inquietanti profeti e scaltri predicatori, imprenditori asserviti, politici coinvolti in un traffico di organi umani, impiegati in rituali magici, per propiziare business e potere, nel puzzle amaro e profondo di abusi e ingiustizie, crocevia fra corruzione e fanatismo religioso, dove “ci limitiamo a sostituire imperatori bianchi con quelli neri”. Così, le contraddizioni montanti, una progressiva scomparsa dell’umanesimo, minano l’euforia delle neo-indipendenze, ma anche la complessità del confronto tra le classi dominanti e le rispettive popolazioni (colonialismo interno). Akinwande Oluwole Soyinka sorride amaro, sotto quella capigliatura che si inerpica verso l’impossibile. La stilettata di Nelson Mandela avversa alla segregazione razziale rimane un modello da seguire contro ogni sete di potere, derive dispotiche e nepotismo (piaghe africane), per spalancare le porte ad una società non violenta fondata su libertà e dignità umana, nella giusta composizione tra tenacia combattiva e senso di compassione umana verso i diseredati. L’Africa di sempre. Attende ancora risposte.

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