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Influencer, il mercato chiede la disintossicazione

27.06.2024

In crisi lo strapotere degli Influencer. Le nuove generazioni si stanno rapportando a una sorta di tecnologia reattiva che non chiede più di consumare passivamente, ma di interagire attraverso il deinfluencing. Vediamo di cosa si tratta.

Gli influencer. Chi li difende e chi preferirebbe mandarli nei campi ad arare il terreno (eufemismo). Ti è passata l’influencer? Sì, sto prendendo la vitamina C. Ma al di là della battuta rivistaiola terapeutica, la C potrebbe sottintendere Consapevolezza. Eh, sì, perché la cosiddetta influencer economy, longa manus della rivoluzione digitale, ha imposto una vera propria rivoluzione: il concetto di narrazione per veicolare un prodotto (un’idea, un progetto) è scivolato sul terreno della co-creazione, inducendo Tik Tok, Minecraft e Roblox a ridefinire lo stesso ruolo degli utenti, trasformati in co-creator attivi. Abbandonato il modello coupon inserito nei giornali, e superata la fase entusiastica delle migliaia di followers e likes su Instagram da sciorinare, le nuove generazioni si stanno rapportando ad una sorta di tecnologia reattiva che non chiede più di consumare passivamente, ma di interagire. Le schiere dei narratori si sono ingrossate (i guru pure), trasformando il divertissement iniziale in vero e proprio lavoro: pianificare, filmare, fare editing su foto e video per sfruttare un’immagine pubblica che sembri “autentica” è il nuovo mantra. Assai problematico rapportarsi ad un ecosistema mediatico dominato dalle star e condizionato da criteri commerciali; l’espressione di sé e le connessioni sociali non sono indenni. «Coltivare un proprio pubblico fedele, offrendo contenuti coerenti e riconoscibili sui social media diventa la priorità» dice Emily Hund, Pennsylvania University.

A fare da puntelli dell’influencer economy, eccoli, i like ed i follower come metri di valutazione dell’influenza esercitata, con percorsi lavorativi più amatoriali e meno istituzionali e il range amplissimo di persone raggiunte ad un costo inferiore rispetto ad una vecchia campagna pubblicitaria. Sfruttare un’immagine pubblica che sembri “autentica” per la monetizzazione finale (gratificazione sociale compresa) si fa modello. Così, con l’introduzione delle stories e l’ascesa di Instagram, la realtà è diventata la sua rappresentazione sistematica online, complice la credulità (o il bisogno di evasione) di un pubblico immenso convinto che la cosiddetta “disintermediazione” offerta dagli influencer fosse garanzia di “autenticità”, glissando sul compenso derivato dal costo di produzione dell’offerta. Contava poco che i creatori di contenuti (in realtà a tutti gli effetti testimonial di brand), sfoggiassero una ricchezza esibita. Un influencer di medio livello, ma dalla visibilità diffusa, in Italia, guadagna anche 20mila euro per un contenuto (milioni in un anno).

Poi ci sono micro e mini-influencer, magari seguiti da mille persone, che però si fidano. Ma la celebrazione snobistica del superfluo, l’ostentazione della vita privata (da privilegiati), tra viaggi su jet privati e pandori ferragnizzati ipervalutati, hanno incrinato il rapporto fiduciario con i personaggi-icona, così s’è fatta largo una nuova tendenza nata su Tik Tok, dove dal 2023 gli utenti della Generazione Z, stanchi degli influencer canonici (con annessa diffidenza verso i brand ed i prodotti “reclamizzati”), prodighi di consigli su cosa comprare-indossare-guardare, hanno dato vita ad una community: #deinfluencing. Un modo diverso di contrastare i diktat del mercato e agevolare l’acquisto consapevole, senza dichiarare estinto l’influencer marketing, ma favorendo una connessione più incisiva con brand e persone.

Su Tik Tok, Twitch, Discord, i content creator, ora, sanno che i giovanissimi della GenZ sono attenti a “proteggere il proprio denaro” e a schivare modelli di consumo (irraggiungibili) instillati per anni dalla Rete degli influencer. Il deinfluencing si propone di decostruire questo immaginario.

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