Che le passeggiate siano un toccasana per la nostra mente, beh, questa non è di certo una novità. Quante volte ci è capitato di uscire a fare due passi all’aria aperta, magari per schiarirci le idee, o magari solo per rilassarci un po’? Insomma, il contatto con la natura, si sa, è un balsamo per il corpo e per lo spirito. Ma in alcuni casi può diventare molto più di questo: una vera e propria ancora di salvezza, un ponte verso una nuova vita.
È quanto accede in Svizzera grazie a Peaks4All, un progetto che unisce alpinismo e integrazione. Lo fa portando i rifugiati provenienti da Paesi come Afghanistan, Iran, Palestina, Ucraina, Nigeria o Mongolia a scalare alcune delle vette più note delle Alpi. A 4 mila metri di altezza l’aria è rarefatta, ogni passo richiede uno sforzo non indifferente. E serve la giusta attrezzatura: abbigliamento tecnico, corde, ramponi e piccozza. Eppure, proprio lassù, molti dei partecipanti raccontano che, nonostante le condizioni estreme, riescono a respirare davvero. Perché qui, tra ghiacciai e rocce, non trovano solo panorami mozzafiato, ma anche la possibilità di ritrovare fiducia e di ricostruire un senso di comunità.
Affrontare le sfide
Le testimonianze lo confermano. Lo racconta Soroush Esfandiary, 27 anni, al The Guardian: arrivato dall’Iran quattro anni fa, ricorda molto bene il momento in cui ha raggiunto la sua prima vetta con il gruppo: “L’alpinismo non è solo uno sport. È la prova che si possono affrontare le sfide fisiche ed emotive, anche in condizioni estreme”. E lui di condizioni estreme ne ha vissute varie: dopo aver preso parte alle proteste in Iran nel 2019, è stato arrestato e messo in isolamento. Rilasciato in attesa di processo, ha capito che non poteva restare, e da lì la fuga attraverso le montagne, fino alla Turchia. Da lì, un lungo calvario, fino all’arrivo in Svizzera, dove ha trovato una nuova famiglia: “Qui siamo persone che provengono da ogni parte del mondo, unite da quello che abbiamo vissuto. E qui tutti cerchiamo la pace”.
Per Diana Lysenko, ucraina di 39 anni, la montagna è stata un’inaspettata via di rinascita. Arriva a Ginevra nell’estate del 2022 per sfuggire all’invasione russa, e si è trovata di fronte a un Paese nuovo e un’integrazione complessa. Così ha accettato la proposta: scalare una vetta di 4 mila metri. E da lì la sorpresa: “Ho scoperto di avere una forza interiore che non conoscevo”.
Anche Alem Big Qaderi, afghano di 26 anni, è arrivato in Svizzera nel 2023. Qui, racconta al The Guardian, si sente al sicuro e fiducioso per il futuro. Quando si trova in mezzo alla natura, tra le Alpi, i paesaggi gli rievocano i ricordi di infanzia e, seppur a distanza di chilometri e chilometri, in qualche modo riesce a sentirsi a casa.
Come nasce il progetto
Ma come nasce il progetto? L’intuizione arriva da due alpiniste, Laëtitia Lam e Clémence Delloye, entrambe spinte dall’idea di coniugare la passione per la montagna con l’impatto sociale. Partito come iniziativa per pochi, oggi coinvolge oltre 200 rifugiati e collabora con 40 volontari e 30 guide alpine.
E le scalate non sono eventi isolati: Peaks4All organizza escursioni regolari, giornate di bouldering, canyoning, corsi di formazione, sempre con un solo obiettivo: rompere l’isolamento che molti rifugiati vivono e creare ponti con le comunità locali. “Le montagne sono diventate un luogo di pace e felicità per molti” ha raccontato Lam.
Questa idea, quella di usare la natura come terapia, trova sempre più spazio anche nella ricerca scientifica e in iniziative simili in altri Paesi europei. Forse è proprio questo il segreto: quando siamo legati alla stessa corda, gli altri non sono più sconosciuti, ma qualcuno con cui condividere il passo, il respiro. E un punto di arrivo che non è solo altitudine, ma sinergia tra ambiente e relazioni umane.