L’Italia si muove (troppo) in automobile. Lo racconta il nuovo rapporto “Mind the Gap” di Clean Cities, la coalizione europea che ha come obiettivo una mobilità urbana a zero emissioni entro il 2030. Il documento squarcia il velo su un divario che non è solo infrastrutturale, ma culturale ed economico: le nostre città offrono un servizio di trasporto pubblico locale (Tpl) che arranca, ancora di più se rapportato a quello delle grandi capitali del continente.
Le metropoli europee – da Madrid a Varsavia, passando per Praga – vantano in media il doppio dell’offerta in termini di posti-chilometro per abitante e cinque volte tanto in chilometri di trasporto rapido di massa. Metro, tram e filobus che da noi restano un miraggio, altrove sono la normalità.
Il Sud paga il conto più salato
La geografia del divario italiano è ancora più spietata. Milano si difende, pur restando lontana dagli standard europei. Ma scendendo verso il Centro-Sud, il quadro si fa desolante, “a prescindere dalla popolazione e dalle dimensioni geografiche”, come sottolinea lo studio.

Tra le prime tre città europee per offerta (Praga, Madrid, Varsavia) e quelle del Centro-Sud italiano c’è un abisso: un rapporto di 1 a 8. Per ogni passeggero che a Napoli, Palermo, Bari o Catania sale su un autobus, ce ne sono otto che fanno lo stesso a Varsavia, Parigi o Praga. Non è un caso: dove l’offerta langue, l’utilizzo crolla di conseguenza. Ci sono meno di 300 passeggeri pro capite nel Centro-Nord, appena 70 nel Centro-Sud. La mediana europea è 410: siamo fuori scala.
La spirale dell’insoddisfazione
Quando il servizio scarseggia, s’innesca un cortocircuito. A Vienna e Praga il gradimento sfiora il 90%. A Bologna e Torino si scende rispettivamente al 68% e al 56%. Ma è al Sud che i numeri crollano verticalmente: meno di un napoletano o un romano su tre si dichiara soddisfatto del Tpl, e a Palermo il consenso precipita a uno su cinque.
Le lamentele sono le stesse, ma amplificate: frequenza carente, affidabilità ballerina, percezione d’insicurezza. Il risultato è la “dipendenza dall’auto privata” – o forced car ownership, come la chiamano gli economisti. Un paradosso amaro: nelle regioni con i redditi più bassi si registrano i livelli più bassi di Tpl e i tassi di motorizzazione più elevati. Auto che pesano sui bilanci familiari già in difficoltà.
Tre italiani su dieci hanno dovuto rinunciare ad almeno un’attività essenziale – lavoro, studio, visite mediche, relazioni sociali – per difficoltà negli spostamenti. Non è solo questione di comodità: è un problema di accesso ai diritti fondamentali.
L’inflazione che divora i fondi
Dietro questo scenario c’è un nodo che strozza il sistema da anni: il sottofinanziamento cronico. Il Fondo Nazionale Trasporti (Fondo Tpl), istituito nel 2014, è la principale fonte di ossigeno per le aziende del settore. Negli ultimi dieci anni gli stanziamenti sulla carta sono oscillati tra i 4,8 e i 5,3 miliardi di euro. Nel 2025, lo stanziamento è stato di 5,3 miliardi.

Sono valori che non tengono conto dell’inflazione. E l’inflazione del settore trasporti, tra il 2014 e il 2025, è stata del 25%. Tradotto in termini reali, significa un trend costantemente negativo. L’ammanco complessivo negli ultimi cinque anni post-Covid supera i quattro miliardi di euro. Se si prende come riferimento il 2009, il calo reale è del 37%.
A questo si somma il “buco” lasciato dalla pandemia: oltre tre miliardi di mancati introiti da biglietti e abbonamenti, di cui lo Stato ha compensato meno di un sesto. Le aziende del Tpl si trovano con le spalle al muro, e la risposta attuale rischia di comprometterne “la stessa sopravvivenza e agibilità economico-finanziaria”.
Investire, non tagliare
L’efficientamento e l’aumento delle tariffe sono strategie possibili, ma insufficienti e rischiose. Alzare i prezzi spingerebbe l’utente occasionale verso l’auto privata, aggravando il problema invece di risolverlo.La via è una sola: investire. E investire massicciamente. Perché le risorse destinate al Tpl non sono un costo, ma un moltiplicatore economico. Ogni euro investito può generare dai 3 ai 4,5 euro di benefici diretti per la collettività, in termini di produttività, riduzione dell’inquinamento, accessibilità ai servizi.
Come spiega Claudio Magliulo, head of Italycampaign di Clean Cities: “Investire nel trasporto pubblico locale non significa soltanto potenziare un servizio di mobilità per i cittadini, ma anche sostenere il tessuto produttivo e contribuire alla competitività complessiva del Paese, garantendo a milioni di cittadini la possibilità di spostarsi in modo sicuro e accessibile, riducendo le disuguaglianze e assicurando pari opportunità di accesso a scuola, lavoro e servizi essenziali”.
Il piano: 6,5 miliardi per ripartire
Le proposte di Clean Cities sono chiare e misurabili. Primo: riportare il Fondo Nazionale Trasporti ai livelli reali del 2010-2011, ovvero circa 6,5 miliardi di euro a prezzi attuali. Significa stanziare 1,2 miliardi aggiuntivi nella legge di bilancio 2026. L’obiettivo finale è raggiungere i livelli del 2009, con un incremento di circa tre miliardi l’anno.
Secondo: incrementare le risorse per le infrastrutture, iniettando liquidità nel Fondo unico per il potenziamento delle reti metropolitane. Il fabbisogno stimato dei progetti già candidati ai bandi supera i 10 miliardi di euro.
Terzo: accelerare l’elettrificazione delle flotte. Un autobus elettrico costa 0,48 euro al chilometro contro gli 0,8 di un diesel, e il divario è destinato ad aumentare. Servono 560 milioni di euro l’anno per supportare la transizione.
Magliulo chiude con un confronto che fa riflettere: gli 1,2 miliardi aggiuntivi richiesti per il Fondo Tpl sono “sulla stessa scala di quanto messo a disposizione per l’ecobonus dei veicoli privati”. Nel frattempo, lo Stato continua a sostenere sussidi ambientali dannosi per un valore stimato tra i 24,2 e i 78 miliardi di euro.
Una scelta di campo
Colmare il gap del Tpl è una scelta di campo tra un Paese che investe sul futuro collettivo e uno che resta aggrappato al modello del ‘900, con tutte le sue contraddizioni e inefficienze. Tra coesione nazionale e frammentazione territoriale. Tra sostenibilità ambientale e dipendenza fossile. Bisogna interrompere il declino del finanziamento reale e rimettere l’Italia sui binari dell’Europa.
