“Roasting the Planet: Big Meat and Dairy’s Big”. Non c’è che dire, un titolo evocativo quello del nuovo studio firmato da Foodrise, Friends of the Earth U.S., Greenpeace Nordic e Iatp alla vigilia della conferenza sul clima di Belem. Anche perché questo barbecue globale viene acceso in mille luoghi ma si fa largo soprattutto nell’Amazzonia che accoglierà i delegati delle Nazioni Unite per la Cop30.
Dall’analisi emerge una responsabilità precisa. Le 45 principali aziende mondiali di carne e latticini emettono oltre un miliardo di tonnellate di gas serra (CO₂ equivalenti), più di quelle dell’Arabia Saudita, secondo produttore di petrolio globale. E producono più metano – il gas che ha un ha un impatto climalterante 85 volte maggiore di quello della CO₂ su un arco di 20 anni – di tutti i Paesi dell’Unione Europea e del Regno Unito messi insieme.
La zootecnia industriale, insomma, è entrata di diritto nel club dei superinquinatori. I primi cinque colossi del settore (JBS, Marfrig, Tyson, Minerva e Cargill) hanno generato nel 2023 – calcola lo studio – circa 480 milioni di tonnellate di gas serra, più di Chevron, Shell o BP. Se queste 45 aziende fossero uno Stato, si collocherebbero al nono posto nella classifica mondiale delle emissioni.
Oltre la metà delle emissioni stimate (il 51%) è metano, il gas “a rapido impatto” che, spiegano gli scienziati, deve calare drasticamente entro la fine del decennio se vogliamo tenere il riscaldamento globale entro un aumento di 1,5 gradi rispetto all’era preindustriale. Ma i numeri vanno nella direzione opposta: le emissioni serra continuano ad aumentare. E mentre si moltiplicano gli allarmi climatici, la produzione di carne continua a crescere.
“Serve una svolta agroecologica”
Il report evidenzia come tre quarti delle emissioni totali provengano da appena 15 delle 45 aziende considerate. Al vertice c’è la brasiliana JBS, responsabile da sola di oltre 240 milioni di tonnellate di CO₂ equivalenti nel 2023, quasi un quarto del totale.
Il paradosso è che mentre il mondo discute di transizione energetica, la “transizione alimentare” resta ai margini del dibattito. Eppure il contributo del settore agro-zootecnico al riscaldamento globale è ormai paragonabile a quello dei combustibili fossili.
“Mentre i leader del mondo si preparano a presenziare alla Cop30, che quest’anno si tiene nel cuore dell’Amazzonia devastata dai colossi della carne, gli scienziati hanno ben chiaro che la mancata riduzione delle emissioni zootecniche ci condurrà ben oltre la soglia limite di 1,5 gradi di surriscaldamento globale”, afferma Simona Savini, campaigner Agricoltura di Greenpeace Italia. “Al centro del nostro sistema agroalimentare dovrebbero essere le aziende agricole che contribuiscono al ripristino della natura e delle comunità, con produzioni basate su modelli di tipo agroecologico, non i maxi allevamenti controllati dalle multinazionali”.
Le richieste: trasparenza e inversione di rotta
Gli autori del report chiedono ai governi di introdurre regole vincolanti: obbligo di rendicontazione delle emissioni per le aziende, obiettivi specifici di riduzione del metano, politiche per contenere la sovrapproduzione e il consumo eccessivo di carne e latticini. E, soprattutto, chiedono di spostare i sussidi pubblici dalla zootecnia industriale a modelli basati su agroecologia, sovranità alimentare e alimenti vegetali.
In altre parole: meno stalle-fabbrica, più campi vivi. Per non continuare a trattare il pianeta come una griglia.