Quando un modello tecnologico dirompente è vicino al successo, cioè sta per scalzare quello precedente, gli attacchi di chi sta perdendo il predominio raggiungono il picco. È il caso delle rinnovabili che stanno sfondando su tutti i fronti proprio mentre il mondo politico europeo vacilla sotto la spinta di un populismo ben foraggiato. Il rapporto di Irena dimostra che nel 91% degli impianti realizzati nel 2024 hanno rappresentato la soluzione più conveniente dal punto di vista economico. E il dato torna con quello degli investimenti: più del 90% della nuova produzione elettrica viene dalle fonti rinnovabili. Per la buona ragione che chi mette i soldi in un impianto che dura decenni vuole garantirsi che possa funzionare senza problemi durante tutto l’arco della sua vita produttiva. I fossili non danno questa garanzia.
Dunque il futuro tecnologico non è in discussione, il trend è chiarissimo. In discussione invece è l’equilibrio geopolitico di questo futuro. L’Occidente (essenzialmente il blocco Nord America – Europa) era in difficoltà prima dell’elezione di Trump, ora è in affanno. E non potrebbe essere diversamente perché mentre altri concorrenti globali corrono sempre più veloci verso il traguardo dell’economia che sta nascendo dalla transizione ecologica, l’Europa rallenta e la Casa Bianca ordina di invertire la rotta.
Il risultato di questa incertezza del ponte di comando, che mette il freno a un sistema di imprese ancora di grande capacità, è nelle cifre di un rapporto di Carbon Brief: la guida della transizione energetica è passata in mano alla Cina. Più Trump frena, più l’Europa tentenna, più la Cina guadagna. E non solo dal punto di vista economico. Pechino sta ricavando un enorme vantaggio di immagine: può investire una piccola quota dei suoi guadagni per rafforzare i suoi legami commerciali e politici in tutti i continenti. E può sventolare la bandiera del beneficio collettivo che la sua azione regala all’umanità per mettere in ombra il lato repressivo del suo potere.
Secondo l’analisi pubblicata da Carbon Brief, le esportazioni cinesi di tecnologie per l’energia pulita nel solo 2024 genereranno un risparmio stimato in 220 milioni di tonnellate di CO₂ all’anno. È una cifra importante: equivale all’1% delle emissioni globali (escludendo la Cina), ed è più delle emissioni annuali di un Paese come il Vietnam o l’Egitto.
La fabbrica del clima
Secondo l’analisi di Carbon Brief, la sola produzione di fotovoltaico, eolico, auto elettriche e accumulatori nel 2024 causerà circa 110 milioni di tonnellate di CO₂ in Cina, soprattutto a causa dell’energia ancora parzialmente fossile usata per fabbricarli. Ma il bilancio è comunque positivo perché, come abbiamo appena detto, l’uso delle stesse tecnologie all’estero evita emissioni più che doppie: si parla di 220 Mt di CO₂ risparmiate ogni anno, una volta che i prodotti sono messi in funzione.
E la prospettiva migliora se si guarda all’intero ciclo di vita: secondo l’analisi, i dispositivi esportati nel 2024 eviteranno complessivamente circa 4 miliardi di tonnellate di CO₂ durante la loro operatività — una quantità enorme, seppur distribuita in un arco temporale di 15-25 anni.
A queste cifre si aggiunge il contributo di altri canali: le fabbriche cinesi all’estero, i progetti energetici costruiti da aziende cinesi in altri Paesi, e i finanziamenti per infrastrutture verdi. Sommando tutte queste voci, Carbon Brief stima che il risparmio complessivo possa arrivare a 350 milioni di tonnellate di CO₂ all’anno, pari a circa l’1,5% delle emissioni globali (esclusa la Cina).
È la prova che la produzione cinese sta diventando un acceleratore globale della transizione energetica, e che il surplus produttivo può giocare un ruolo chiave nella decarbonizzazione mondiale.
Il caso Africa e Medio Oriente: i numeri contano
Ci sono aree del pianeta in cui l’impatto delle esportazioni cinesi è particolarmente incisivo. Nell’Africa sub-sahariana, per esempio, il risparmio stimato è pari a circa il 3% delle emissioni regionali. Nel Medio Oriente e Nord Africa, l’impatto sale addirittura a circa il 5%. Qui le tecnologie pulite importate dalla Cina compensano quote rilevanti delle emissioni locali, contribuendo non solo alla riduzione dei gas serra ma anche all’accesso a fonti di energia moderna e sostenibile.
Intanto, anche sul fronte interno qualcosa si muove. Per la prima volta nella storia recente, le emissioni cinesi hanno mostrato un’inversione di tendenza non dovuta a crisi economiche o restrizioni sanitarie. Secondo i dati raccolti da Crea (Centre for Research on Energy and Clean Air, un’organizzazione indipendente con sede in Finlandia) ripresi da Carbon Brief, nel primo trimestre del 2025 le emissioni di CO₂ in Cina sono diminuite dell’1,6% rispetto allo stesso periodo del 2024. Su base annua, il calo è di circa l’1%. Un dato ancora fragile ma molto indicativo.
A determinare questa svolta è stata proprio la crescita delle fonti rinnovabili: nel 2024, la Cina ha installato oltre 370 gigawatt di nuova capacità pulita,; oggi circa il 44% del mix elettrico nazionale proviene da fonti non fossili, tra cui solare, eolico, idroelettrico e nucleare.
Dunque la Cina sta effettivamente contribuendo alla riduzione globale delle emissioni, grazie a un’industria che riesce a produrre e distribuire tecnologie pulite a prezzi competitivi e su scala colossale. La domanda è: vogliamo lasciare il timone del futuro nelle sole mani di Pechino?