14 Gennaio 2025
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Cultura, Società

La competitività si diffonde

14.01.2025

In una realtà dominata dall’ansia della prestazione e dal mercato dell’affermazione, gli spazi si restringono e degenera la malattia del non sentirsi mai adeguati. Si fa strada la sollecitazione rivolta a ogni singolo ad esprimersi, a “essere sé stesso”, per trovare la chiave del proprio potenziale dentro un progetto di vita. La riflessione.

Le parole hanno un potere di fascinazione assoluto e spesso aprono varchi nel caratterizzare i mutamenti sociali. Cosicché, il termine prestazione, nel caricarsi di significati anche reconditi, si presta più degli altri a farsi strumento concettuale centrale per cogliere il senso profondo della nostra società. Il mutamento dei costumi, dei rapporti interpersonali in relazione alla massiva invadenza tecnologica e alla regolazione dei processi economici, ha lasciato spazio (fino a farsene vampirizzare) al cosiddetto modello “neoliberista” che, alimentando la diffusione della competitività (a qualsiasi livello), si è fatto esso stesso criterio fondamentale di giudizio sul valore della soggettività. La raffinata analisi di Lacan sulla cancellazione del limite quale nuova frontiera (anni Settanta), si sovrappone a quella più popolaresca (ma non meno efficace) di Trilussa e del suo filosofo (1940) rassegnato ad un’ammissione tristanzuola: «Oggi, quelo che conta so’ li muscoli: co’ la raggione nun se fa un bajocco». L’irriverenza (presunta) dell’accostamento psicoanalisi-letteratura, cela a malapena la quintessenza di una problematica che nella novella società della prestazione vede avanzare vittorioso il desiderio come molla di tutti i processi.

Così, lo sfruttamento del desiderio stesso, la sua (come dire) commerciabilità costituisce la piattaforma sulla quale impiantare la retorica manageriale d’impresa nella società contemporanea, prefigurando un nuovo quadro sociale che ha la performance come valore assoluto e imprescindibile imperativo sociale. Bisogna produrre, prodursi, senza sosta, senza inceppare il meccanismo autoprodotto, perché fermarsi equivale ad un fallimento (esistenziale). Nasce la nuova antropologia, con le sue derive patologiche, che da una parte vede svilupparsi la sofferenza psichica di chi non riesce a sostenere i ritmi forsennati per “essere imprenditori di sé stessi”, e dall’altra una sorta di resistenza-resilienza che contrasta la performatività, cerca di eluderla in nome del diritto al fallimento. L’esigenza di fallire diventa un antidoto contro ogni patologia narcisistica e cinica indotta dalla macchina prestazionale (lavorare-produrre-spendere-consumare) e accarezza l’invito di Samuel Beckett (nel momento in cui aspetta Godot): «Tentare di nuovo. Fallire ancora, fallire meglio!». Il dovere-obbligo morale di lavorare sempre (il lavurà lombardo, per eccellenza) rischia di erodere i legami relazionali con gli altri, perché assume i caratteri della dismisura assoggettandosi al concetto-guida di valore e profitto vincolato sostanzialmente solo alla produzione. La regola viene imposta dall’imperativo della concorrenza che trasforma tutti (più o meno consapevolmente) in “soggetti-impresa”, una sorta di modello d’umanità contemporanea basato sull’iniziativa privata con il fulcro costituito dal “capitale umano” impegnato a conquistare credito, reputazione e spazio relazionale (non disgiunto dall’auspicato reddito) in un contesto sociale che patisce l’ansia da prestazione.

È come se tutti noi sfogliassimo, per carpirne le tecniche, un manuale di management aziendale deputato ad accrescere il potenziale prestazionale, attraverso responsabilità, auto-motivazione, duttilità e acquisizione di un “portafoglio delle competenze”, sui vari fronti, dalla scuola, all’università, al lavoro. Facendo, nel contempo, tesoro, secondo l’analisi accurata di Federico Chicchi e Anna Simone (La società della prestazione), dei nuovi orizzonti offerti dalle piattaforme digitali, capaci di superare gli inceppi da competizione ed aprire «quello spazio originario di connessione con il godimento che va nella direzione dell’amore», permettendo all’arte di rigenerarsi come legame sociale fondato su creatività e invenzione. Una nuova sensibilità comune da riconquistare, dunque.

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