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La condanna alla Juventus e il riflesso del mondo del pallone sempre in bilico

23.05.2023

In un sistema pieno di crepe, anche il rispetto dell’avversario diventa una plusvalenza. Ci vantiamo di avere tre squadre nelle finali europee, ma non c’è campionato, dalla A in giù, che non termini con asterischi o segni meno.

Dieci punti. Erano 15 e potevano essere anche 0. Non è questo il punto. È stata la Juventus, ma poteva essere qualsiasi altra squadra. Anche questo non è essenziale. In verità è il calcio italiano, quello che vive ormai al limite e sulle spalle dei tifosi, ma che poi i tifosi li aizza gli uni contro gli altri per continuare a spartirsi i milioni su cui si regge, un castello di banconote di carta, che in realtà spesso non esiste. Plusvalenze, si chiamano. In realtà sono unillusione.

La sentenza definitiva (forse) del processo sportivo – in attesa di quello penale – dà un colpo al cerchio e uno alla botte. La Juve ha barato? Allora che cosa sono 10 punti, quale afflizione rappresentano se davvero i bilanci con cui si è iscritta al campionato erano gonfiati? La Juve è invece innocente? E allora in che senso colpire, ma non troppo? Domande che nascono spontanee dopo aver ascoltato le oscenità sportive delle intercettazioni, in un mondo del pallone che viaggia sempre in bilico, barcollando sul filo di bilanci che non quagliano mai, ma che all’improvviso tornano sempre, come per magia. E da che parte sta la Federcalcio, quella che dovrebbe vigilare sulle regole? Ecco, appunto.

E allora mettiamoci nei panni di un bambino, uno dei tanti che un giorno vorrei fare il calciatore”. Lui che ne sa di tutto questo: sogna guardando le imprese dei suoi eroi, tifa sperando di vincere sul campo. Però poi gli spiegano che bisogna essere onesti, ma che i disonesti sono sempre gli altri. Crede nel calciatore che bacia la maglia, fino a quando però quella maglia non c’è più il contenuto, perché nel calcio “non si può mai sapere” e basta una buona offerta per ripiegare le bandiere. Nell’era del calciomercato a ciclo continuo, di Calciopoli che non finisce mai (quanti sono gli scudetti?), nei diritti Tv da vendere (“e figurati se si possono vendere senza la Juve, il Milan o l’Inter”), cresce avvelenato alla fonte. E diventa il tifoso modello, quello sempre contro.

Il processo alla Juve insomma non è altro che un giudizio verso un sistema ormai pieno di crepe. Che ovunque lo vedi, dall’alto o dalle fondamenta, sembra un teatrino dell’assurdo in cui i 90 minuti più recupero sono diventati l’unico momento di verità, ma non sempre. Ci vantiamo di avere tre squadre nelle finali europee, ma non c’è campionato ormai, dalla A in giù, che non termini con asterischi o segni meno, con fallimenti o salvataggi in extremis. Tutto è diventato tragicamente normale e intanto i bambini guardano e assimilano: anche loro imparano a chiedere di più, a volere di più anche sei i soldi non ci sono, perché tutto si può fare e nel caso c’è sempre un complotto a cui aggrapparsi. Il rispetto dell’avversario? Diventa, anche quello, una plusvalenza: c’è, ma solo sulla carta. Il rispetto delle sentenze? Solo se ti danno ragione, perché «vincere non è importante, ma è l’unica cosa che conta», come diceva Giampiero Boniperti. Allora era una battuta, oggi l’atto costitutivo del calcio moderno, sempre pronto a rifondarsi fino a quando il pallone torna ad andare a rotoli. Fino alla prossima sentenza, sicuramente un’ingiustizia.

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