Lo spettacolo deve continuare. La Cop30 deve difendere il multilateralismo, più che fare i passi per affrontare concretamente, alla velocità necessaria, la crisi climatica. E così a Belem va di scena un triste teatrino nel quale si celebra un accordo globalmente molto modesto, sancito del documento sul mutirão, termine preso dal processo di dialogo cooperativo tradizionale indigeno. È l’accordo dei “passettini” come dicono alcuni addetti ai lavori. E infatti passettini sono.
Non c’è nessun riferimento esplicito ai combustibili fossili o a una tabella di marcia per abbandonarne l’uso. La coraggiosa proposta fatta al vertice dei leader dal presidente brasiliano Lula Da Silva della roadmap sul transitionig away dai fossili, seppure sostenuta con vigore da una ottantina di Stati, in primis Europa, Australia, America Latina e piccole isole, è andata clamorosamente a sbattere contro il muro eretto dai Paesi arabi coordinati dall’Arabia Saudita, dalla Russia e da buona parte delle nazioni africane, un fronte pro fossili che ha avuto anche il pieno supporto dell’India. La mediazione tentata dalla Cina non ha prodotto risultati e Lula ha fatto una pessima figura, a casa sua.
Due nuovi strumenti
Certo, il mutirão crea ai punti 41 e 42 due strumenti – la Global implementation accelerator e la Belém mission to 1.5 °C – per discutere implicitamente di uscita dei fossili. Il primo sarà “una iniziativa cooperativa, facilitatrice e volontaria per accelerare l’attuazione dell’accordo di Parigi e mantenere l’obiettivo di fermare il riscaldamento a +1.5 °C”. Il secondo sarà invece mirato a “consentire l’ambizione e l’implementazione dei contributi determinati a livello nazionale e riflettere nell’accelerazione dell’attuazione”. Linguaggio criptico, ma sostanzialmente si tratta di strumenti nel quali avviare un dialogo sulla mitigazione e quindi anche su una via d’uscita dai combustibili fossili. Ma senza dirlo apertamente.
Per il resto non c’è una roadmap per le foreste (mai neppure in agenda) al di là del piano brasiliano per monetizzarne la preservazione. Piano che però ha avuto 5 miliardi di dollari a fronte dei 25 richiesti. Certo, il mutirao, chiede di triplicare i finanziamenti per l’adattamento dal 2035, che secondo stime metterà a disposizione 120 miliardi di dollari all’anno (rispetto ai 300 promessi lo scorso anno a Baku). “Invita” le parti a perseguire “la piena attuazione degli Ndc, cercando al contempo di fare meglio”. “Ribadisce la determinazione” a proseguire gli sforzi per raggiungere l’obiettivo di 1,5 °C e ridurre al minimo il superamento. “Sottolinea” l’importanza di arrestare e invertire la deforestazione entro il 2030.
Le promesse del presidente della Cop
Il testo sostiene la richiesta di “giusta transizione” ma nega prescrizioni sullo sfruttamento dei minerali critici (sono state Cina e India a opporsi). Il presidente della Cop, l’ambasciatore Correa do Lago non si nasconde dietro un dito. “So che molti di voi avrebbero voluto un’ambizione maggiore. Come ha detto il presidente Lula, abbiamo bisogno di roadmap. E come presidente della Cop30 vi prometto che lavorerò su due roadmap, una sulle foreste e una sulla transizione dalle fonti fossili. Saranno guidate dalla scienza, saranno inclusive e si concluderanno ad aprile”. Ma una iniziativa fuori dalla Cop ha un peso incommensurabilmente minore.
Soddisfatti i cinesi
Paradossalmente, dal G20 in Sudafrica, Lula proclama vittoria. “Alla Cop della verità”, dice, “la scienza ha prevalso. Il multilateralismo ha vinto”. È questa la narrazione prevalente. Decisamente soddisfatti si dicono i cinesi. “Abbiamo ottenuto questo successo”, dice il capo negoziatore cinese, Li Gao, “in una situazione molto difficile, il che dimostra che la comunità internazionale vuole mostrare solidarietà e compiere sforzi congiunti per affrontare il cambiamento climatico”. E persino gli europei fanno buon viso a cattivo gioco. “Non neghiamo che avremmo voluto più ambizione su tutto”, afferma il commissario al Clima Wopke Hoekstra, che nelle trattative era stato molto duro ed è poi diventato realista, “ma accettiamo l’accordo finale”.
Evidentemente l’input giunto da Bruxelles è stato chiaro: abbozzate. Dopotutto, dice la ministra francese della Transizione ecologica. Monique Barbut, “si tratta di un testo piuttosto piatto, ma non c’è nulla di straordinariamente negativo al suo interno”. L’Italia poi era realista prima e lo è adesso, schierata per non fare il passo più lungo della gamba. “Abbiamo raggiunto un compromesso”, osserva il ministro dell’Ambiente italiano Gilberto Pichetto Fratin, “che è una mediazione e un risultato importante perché mantiene il percorso definito alla Cop28 di Dubai per l’obiettivo climatico e quello di Cop29 per l’impegno per l’adattamento”. Non aver fatto passi indietro per noi e per l’Europa sarebbe un successo.
Il bicchiere mezzo pieno
Anche molti addetti ai lavori vedono il bicchiere mezzo pieno. “Sebbene sia ancora lontano dall’obiettivo, il risultato ottenuto a Belém rappresenta un progresso significativo”, ha affermato Jennifer Morgan, una veterana dei negoziati climatici, ex Wwf e poi inviata per il clima del governo tedesco. “L’Accordo di Parigi”, sostiene, “sta funzionando. La transizione dall’uso dei combustibili fossili concordata alla Cop28 a Dubai sta accelerando e, nonostante gli sforzi dei principali Stati produttori di petrolio per rallentare la transizione verde, il multilateralismo continua a sostenere gli interessi di tutto il mondo nella lotta alla crisi climatica”.
“Per noi”, rincara la dose Luca Bergamaschi, cofondatore del think thank climatico italiano Ecco, “si sta delineando un risultato generale interessante di ‘dure verità’. Da un lato il multilateralismo tiene e fa un passettino in avanti costruendo sul consenso di Dubai per l’uscita dai fossili. Nel negoziato multilaterale questo prenderà la forma di spazi (Global Implementation Accelerator e Belém mission to 1.5 °C) per discutere come farlo, anche se non si va oltre la definizione di questi spazi e non si menziona la roadmap. L’altra verità è che c’è una riorganizzazione di alleanze trasversali di 80 Paesi che sostengono l’avvio di una roadmap (come vuole il Brasile) e una conferenza ad hoc sui fossili (organizzata dalla Colombia). Quindi di fatto per noi è un risultato a velocità multiple”.
Le critiche
Altri sono più critici. “Dal Mutirão alle decisioni sul Global Stocktake”, commenta Jacopo Bencini, presidente di Italian Climate Network, “la Cop ha ribadito la soglia di 1,5 °C come riferimento dell’Accordo di Parigi, ma senza strumenti concreti per raggiungerla. Sul fronte dei combustibili fossili e degli Ndc, gli avanzamenti sono limitati, così come le misure per colmare i gap di ambizione e di implementazione. La finanza per l’adattamento cresce solo lentamente, mentre la giusta transizione fa passi avanti sul piano sociale, ma meno su quello climatico. La Cop30 e il Brasile hanno voluto lanciare un segnale forte a favore della sopravvivenza del sistema multilaterale sul clima. Ma quella che hanno chiamato la “Cop della verità” – verità scientifica e verità politica, la prima nel nuovo contesto diplomatico guidato dai Brics senza gli Stati Uniti – si è scontrata con la realpolitik e con un’alleanza strumentale con la Cina, rivelatasi debole e fallace negli ultimi tre giorni del vertice”.
Così è se vi pare. Dopotutto siamo nella stagione di Donald Trump il negazionista climatico: il drill baby drill, trivella a volontà baby, è un programma ideologico e politico.
