Si chiama Blatten, 300 anime, ed era un villaggio sulle Alpi, nella valle di Lotshental, nel Vallese, in Svizzera. Era, perché una valanga di roccia e ghiaccio – 3 milioni di tonnellate almeno – precipitata dal ghiacciaio sovrastante l’ha spazzato via, distruggendone almeno il 90%, ora sepolto sotto una coltre di parecchi metri di roccia e fango. Le immagini della catastrofe trasmesse dalla tv svizzera sono impressionanti. La frana ha ricoperto il fondovalle con uno strato di materiale alto diverse decine di metri, i detriti si sono spinti fin quasi al vicino villaggio di Wiler, e hanno ostruito il torrente. Il crollo del ghiacciaio è stato così massiccio che ha causato un terremoto di magnitudo 3,1 sulla scala Richter.
“Era l’eventualità peggiore prevista dai nostri geologi – ha commentato Stephane Ganzer capo della Protezione civile del Sud Vallese – ed è successa. Lo temevamo e per questo il 19 maggio avevamo deciso l’evacuazione del villaggio”. Ma anche con l’evacuazione, al momento risulta un disperso, un abitante che pare non avesse accolto gli inviti delle autorità.
La frana è stata innescata dallo sgretolamento di una cresta sulKleinen Nesthorn sopra il ghiacciaio del Birch. Nei giorni seguenti la massa di detriti rocciosi, quantificata in 9 milioni di tonnellate, aveva innescato il movimento a valle del ghiacciaio fino a che, alle 15.30 di mercoledì, è avvenuto il cedimento totale di una porzione importante del ghiacciaio, che ha portato a valle almeno 3 milioni di tonnellate di rocce, ghiaccio e fango.
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Questo è uno degli affetti attesi del cambiamento climatico sugli ambienti montani, come le nostre Alpi, i Pirenei o l’Himalaya. dal 2000 al 2023 la maggiore perdita relativa di ghiaccio si è verificata nelle regioni con una piccola area glaciale (cioè minore di 15.000 km²): Europa centrale (-39%), Caucaso (-35%), Nuova Zelanda (-29%), Asia settentrionale (-23%), Canada occidentale e Stati Uniti (-23%) e i ghiacciai di basse latitudini (-20%).
Sulle Alpi si registra la perdita di almeno un terzo della massa e con l’incremento delle temperature previsto entro il 2050 tutti i corpi glaciali al di sotto dei 3500 metridi quota saranno scomparsi. Tra quelli già estinti: c’è il ghiacciaio di Flua in Piemonte, in Valsesia, mentre quelli del Canin (In Friuli-Venezia Giulia) e del Triglav (in Slovenia) sulle Alpi Orientali, si sono ridotti a residui sparsi di neve e ghiaccio. I prossimi destinati a scomparire sono quelli della Marmolada (Fonte SAT-CGI) e dell’Adamello.
“La perdita di massa che stanno subendo tutti i ghiacciai dell’arco Alpino – osserva il professor Walter Maggi presidente del Comitato Glaciologico Italiano e Professore dell’Università di Milano Bicocca –ha portato alla scomparsa di numerosi piccoli ghiacciai specialmente nei massicci montuosi a minore quota. Questa perdita sta modificando in modo drammatico il paesaggio montano, la disponibilità della preziosa riserva d’acqua, andando ad impattare sulle comunità locali già colpite dai cambiamenti climatici”. E tra gli effetti ci sono anche le frane come quella svizzera e molte altre nei versanti ripidi ad alta quota, sinora tenuti assieme dal permafrost, il terreno ghiacciato.
Il catasto del Cnr contiene informazioni su 722 processi di instabilità naturale (frane, colate detritiche e instabilità glaciale) avvenuti nelle Alpi italiane sopra quota 1.500 metri nel periodo 2000-2022. I più frequenti sono i crolli di roccia (36% del totale), seguiti dalle colate detritico-torrentizie (25%). Le analisi evidenziano una crescita negli anni a causa soprattutto dell’aumento delle temperature, che determina la degradazione del permafrost incidendo, dunque, sulla stabilità dei versanti. Oltre la metà degli eventi documentati finora, infatti, si verifica durante l’estate (56%). Il fenomeno continuerà con il progredire del cambiamento climatico, e può essere fermato in un solo modo: fermando l’aumento di temperatura, e per questo occorrerà una drastica riduzione delle emissioni. E qui da trenta-anni, viene il difficile.
Chi inquina paga i danni
Gli accordi di mitigazione, cioè di riduzione delle emissioni, contenuti nel quadro della conferenza quadro sui cambiamenti climatici, vanno per ora a rilento per mancanza di volontà politica, tanto e vero che si è passati dall’approccio legalmente vincolante del protocollo di Kyoto a quello non più legalmente vincolante sugli obiettivi sancito dall’accordo di Parigi. Il che significa che si fa molto meno di quel che si potrebbe e dovrebbe.
Ma qualcosa potrebbe cambiare per effetto di sentenze che potrebbero obbligare gli inquinatori a pagare per le proprie azioni. E ci si è già arrivati molto vicini. Nei giorni scorsi un tribunale tedesco ha respinto una causa sul clima intentata da un agricoltore peruviano contro la società energetica tedesca RWE, ma ha stabilito un precedente potenzialmente importante sulla responsabilità degli inquinatori per le loro emissioni di carbonio.
Saúl Luciano Lliuya, contadino e guida alpina di Huaraz, nel nord del Perù, vive all’ombra della laguna Palcacocha, un lago glaciale situato a oltre 4.500 metri nella Cordigliera Bianca. Negli ultimi decenni, questo specchio d’acqua si è ingrossato in modo preoccupante a causa dello scioglimento accelerato dei ghiacciai, effetto diretto della crisi climatica. Una crescita che mette seriamente a rischio le comunità a valle, tra cui Huaraz, minacciate da possibili inondazioni provocate da frane o valanghe nel bacino. Per mettere in sicurezza l’area servirebbero circa 3,5 milioni di dollari.
È in questo contesto che, nel 2015, Luciano Lliuya ha deciso di portare in tribunale il colosso energetico tedesco RWE, chiedendo un contributo di circa 17.500 dollari. La somma è stata calcolata in base a uno studio del 2014, che attribuisce alla società lo 0,47% delle emissioni globali di gas serra. Un piccolo importo, simbolico ma significativo, che punta a stabilire un principio di responsabilità climatica. La corte ha respinto la richiesta specifica di indennizzo perché, secondo i giudici, il rischio di inondazione per l’abitazione di Saúl Luciano Lliuya è “plausibile” ma non sufficientemente alto da giustificare un risarcimento diretto. Ma ha confermato la fondatezza del principio di fondo. I grandi inquinatori possono essere chiamati a pagare per danni verificatisi a decine di migliaia di chilometri di distanza.
È una pietra miliare per il diritto climatico europeo . Le aziende, dice la sentenza del tribunale superiore di Hamm, “possono essere obbligate ad adottare misure preventive per contrastare le loro emissioni, e se l’inquinatore si rifiuta definitivamente di farlo, si potrebbe stabilire, anche prima che i costi effettivi siano sostenuti, che l’inquinatore debba sostenere i costi in proporzione alla sua quota di emissioni”. Chi inquina paga. E se questo principio si affermasse a livello globale questo sarebbe uno strumento potente per convincere molte aziende a una politica rispettosa dell’ambiente.