La crisi climatica potrebbe compromettere gravemente la capacità del nostro pianeta di produrre cibo, anche tenendo conto degli sforzi di adattamento messi in atto dagli agricoltori e della crescita economica globale. È quanto emerge da un nuovo studio condotto dall’Università di Stanford, pubblicato sulla rivista scientifica Nature che rappresenta finora l’analisi più completa sugli impatti climatici sull’agricoltura globale.
La ricerca ha analizzato oltre 12.000 regioni agricole in 55 Paesi, concentrandosi sulle sei colture che forniscono la maggior parte delle calorie consumate dall’umanità: grano, mais, riso, soia, orzo e manioca.
Fino a 120 calorie in meno al giorno per persona
Anche ipotizzando che gli agricoltori continuino ad adattarsi al clima che cambia — ad esempio anticipando le semine, cambiando varietà o modificando l’uso di fertilizzanti — la produzione agricola globale potrebbe diminuire fino al 24% entro il 2100, rispetto a uno scenario senza cambiamento climatico.
Ogni grado in più di riscaldamento globale ridurrà la disponibilità alimentare di circa 120 calorie al giorno per persona, pari a quasi il 4,5% del consumo giornaliero medio. In termini concreti, con un aumento di 3°C, sarà come rinunciare alla colazione ogni giorno.
I danni maggiori si registreranno negli Stati Uniti, soprattutto nel Midwest, la cosiddetta “Corn Belt”, oggi cuore della produzione di mais e soia. “Ci si inizia a chiedere se la Corn Belt sarà ancora tale in futuro”, ha dichiarato Andrew Hultgren, primo autore dello studio.
Alcuni Paesi potrebbero guadagnarci, ma il bilancio globale è negativo
Se alcune aree del mondo — come Canada, Cina settentrionale e Siberia — potrebbero trarre vantaggio dal riscaldamento globale trasformandosi in nuove aree agricole, il bilancio complessivo resta drammaticamente negativo. In media, gli sforzi di adattamento potranno compensare solo un terzo delle perdite previste.
In particolare, gli agricoltori più vulnerabili saranno anche quelli più colpiti: le comunità di sussistenza potrebbero perdere fino al 28% della produzione, mentre quelle più sviluppate (con accesso a tecnologia e credito) arriveranno a perdere il 41%.
Il riso, unica parziale eccezione
Tra le poche colture che potrebbero persino migliorare le proprie rese c’è il riso, grazie a notti più calde che favoriscono la maturazione. Tuttavia, per tutte le altre colture principali, le probabilità di calo della resa superano il 70-90%, secondo i modelli sviluppati dai ricercatori. Anche se le emissioni venissero azzerate rapidamente, le rese agricole globali calerebbero comunque dell’11% entro il 2100, mentre se le emissioni continuassero a crescere al ritmo attuale, la perdita salirebbe al 24%. Anche entro il 2050, le rese diminuiranno dell’8%, indipendentemente dalle politiche future, perché i gas serra già presenti in atmosfera continueranno ad alterare il clima.
Una minaccia concreta alla sicurezza alimentare
“Gli agricoltori possono fare la loro parte, ma senza un clima favorevole, ogni investimento potrebbe rivelarsi inutile”, ha spiegato Solomon Hsiang, co-autore dello studio e docente alla Stanford Doerr School of Sustainability. Hsiang sta collaborando con il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) per indirizzare meglio gli investimenti pubblici nei Paesi più vulnerabili.
Questo studio rafforza quanto già emerso da altre ricerche, tra cui quelle della Fao e del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc): la crisi climatica è una delle principali minacce alla sicurezza alimentare globale. Se non verranno prese misure drastiche per ridurre le emissioni di gas serra, il rischio di crisi alimentari diffuse — con effetti a catena su salute, migrazioni e instabilità sociale — diventerà una realtà.